Nella vulgata corrente, Richard Wagner è strettamente associato alla ‘rinascita’ degli antichi miti germanici, ed in tal senso venne ‘catturato’ ed esaltato, nel periodo tra le due guerre, dal nazionalismo tedesco. Nelle biografie più accreditate (Neuman, Gutman, Gregor Dellin), il sassone è, invece, ritratto come un bravo luterano che dalla natia Lipsia trasfuse i valori del cristianesimo e della riforma nelle ‘opere d’arte totali’. Non per nulla, il momento centrale del Rienzi, richiamato nella magnifica ouverture, è la grande ‘preghiera’ a Dio del protagonista all’inizio del quinto atto, il tema di fondo dello Olandese Volante è la punizione dell’uomo che ha sfidato Dio, quello di Tannhauser Lohengrin è lo scontro tra il paganesimo (greco-romano nel primo lavoro, germanico nel secondo) e l’avanzare del cristianesimo, lo stesso I Maestri Cantori di Norimberga è infuso di spirito luterano, la Tetralogia narra la fine del politeismo tedesco e Parsifal è l’esaltazione della redenzione cristiana. Si potrebbe andare più a fondo.



Questo saggio di Pietro Tessarin – Il Mito ed il Sacro in Richard Wagner – Sacrificio e redenzione nell’Opera d’arte totale (pp. 248- € 25- Zecchini Editore 2019) – è una interessante lettura per i wagneriani (in Italia non sono pochi e costituiscono un’associazione con sede a Venezia) e le persone colte in generale, in quanto affronta il tema con una duplice strumentazione: quella dell’antropologo e quella del musicologo. Nonché con l’esperienza sul campo all’ufficio stampa e marketing di una grande fondazione lirica come La Fenice di Venezia.



E’ uno studio singolare diviso in due parti, e quattro capitoli, in cui la prima riguarda il mito e la tragedia greca sotto il profilo del mito della trasgressione e redenzione (tema visto con l’occhio dell’antropologo piuttosto che – come è consueto – con quello del grecista o dello studioso di teatro antico) e la seconda i nessi tra la tragedia attica ed il mito del ‘rito sacrificale’ nella ‘musica dell’avvenire’ di Wagner, culminante nella costruzione del Teatro Tempio a Bayreuth. Il capitolo conclusivo è una primizia: le regie wagneriane nell’Unione Sovietica stalinista, che nulla avevano a che vedere con il luteranismo di cui era impregnato Wagner.



Nella prima parte il libro tratta, in dettaglio, dell’importanza del rito sacrificale nella tragedia greca seguendo, in gran misura, l’antropologia di René Girard e di Giuseppe Fornari. Non vanto competenze specifiche in questo campo ma avendo per lunghi anni viaggiato in Estremo Oriente ed in Africa sub-sahariana, a me sembra che il rito sacrificale sia centrale alla nascita di tutte le forme teatrali. Quelle asiatiche sono studiate a fondo. In Africa occidentale (Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Camerun) ho assistito a spettacoli tradizionali che, senza l’eleganza e la profondità della tragedia attica, avevano il loro fulcro in riti sacrificali mirati alla redenzione. La seconda parte concerne l’importanza del rito sacrificale nella Gesamtkunstwerk wagneriana: l’analisi è puntuale, le interpretazioni sono suggestive (specialmente quella dell’‘attore’ come nuovo sacerdote). La scrittura fluida incoraggia a leggere il libro tutto d’un fiato.

Resta un interrogativo: che accesso ha avuto il sassone alla tragedia attica? Forse tramite alcune prime traduzioni in tedesco. Non risulta che Wagner, sempre viandante e sempre povero in canna, avesse una ‘cultura classica’, al di là di ciò che si leggeva in lavori di studiosi tedeschi dell’epoca. La domanda non è un banale perché paradossalmente la somiglianza tra mito e sacro nei greci ed in Wagner sarebbe più integrante se risultasse da qualcosa di più profondo che dalla lettura di secondo grado del musicista di qualche lavoro degli attici.