C’è un ricordo tuttora vivo nella mente di chi scrive, un riferimento che Miki Porru fece in un suo post del 2013 sulla sua bacheca Facebook che portò il sottoscritto a credere che fosse sin d’allora in preparazione un album dal titolo “Hotel Disamore”, tanto da citarlo in una recensione di un singolo nato da una collaborazione di Porru con lo scrittore Danilo Masotti (Ci meritiamo tutto). 



In realtà i post erano vari, esisteva una canzone intitolata Hotel disamore eseguita dal cantautore bolognese nei suoi house concert, che parlava di un albergo immaginario in mezzo alle colline, ma Hotel disamore era anche l’immagine che identificava un luogo particolare, un mondo di reietti dove la parola amore appariva una realtà ben complicata e lontana anche solo a livello di mera intenzione.  Anche la tematica affrontata nell’(allora) ultimo album di inediti “L’Uomo che cammina” del 2012, andava a più riprese a parare tra le lusinghe e gli inganni tipici di questa forma decadente e scombinata di amore.



Sta di fatto che mentre il successivo “Diamanti (2015), spostava il tema sulla convenienza del rapporto a due come termometro della dimensione di un senso personale, sposandone adulazioni e incognite, il nuovo “Hotel Disamore” finisce per essere la conclusione della trilogia anziché il suo giro di boa come, forse, era nelle intenzioni originali dell’autore.  E tutto ciò non porta a quell’ipotesi più conciliante che “Diamanti” avrebbe lasciato in dote.

Hotel Disamore” è un concept album atipico e deviato che rappresenta la cronaca di questa evoluzione, con la messa a nudo di tutte le degenerazioni, gli alibi, gli slanci, i fatalismi e le cadute del rapporto tra sé e gli altri, e con il dilemma-amore sempre presente e aperto.  La struttura del disco riprende letteralmente un albergo di 14 stanze (la cui piantina all’interno del booklet è stata disegnata da Red Canzian) con una canzone per ognuna di esse e altre due, poste rispettivamente all’inizio e alla fine del disco in funzione di check-in e check-out. 



La produzione – anziché di Canzian qui ospite di lusso – è dello stesso Porru in combutta con Paul Manners e il grande batterista Phil Mer in fase di arrangiamento. La band annovera il resto dell’ottima truppa che accompagna il nostro da un po’ di anni e che altro non è che quella dello stesso Canzian, Alberto Milani alle chitarre, Daniel Bestonzo alle tastiere, Andrea Lombardini al basso.  

Il check-in è Prima o poi, canzone in forma di opera-pop che stende il tappeto d’ingresso ad ospiti, personaggi, protagonisti, comparsate.  Melodia colorita tra fiaba e avanspettacolo, l’incedere sardonico e incisivo tipico di Porru, ciascun ospite (il citato Canzian, Isbella D’Emey, Delia Gualtiero, Arianna Cleri, Monia Russo, Paul Manners) che si annuncia cantando un frammento per anticipare il prossimo incontro nella singola stanza.  Un inizio godibile con un’aura da musical che crea un senso di attesa, un bel fluido di scorrimento per il resto dell’ascolto che svela la versione migliore di sempre del Porru forgiatore di linee musicali di pregio eseguite con le sue inconfondibili smorfie vocali.

Per esempio Tutto il mondo che balla (stanza dei mercenari danzanti), La controvita (stanza dei rimpianti – ma anche no) e Uccidimi con le loro virate tra dance ed electro o la melodia per direttissima di Colpo di mano, vedono il nostro navigare nel pop di classe in un’ideale rotta di mezzo tra Celentano e Carboni, marcando il territorio con efficacia e ottima gestione dei riferimenti.

Ulteriore elemento distintivo è il maggiore peso specifico della band che – dalla prevalente funzione di rifinitura del precedente “Diamanti” – entra con maggiore decisione a sottolineare i vari momenti con i climax affidati a brevi e centrati solo chitarristici di Milani, alle raffinate soluzioni di Phil Mer e all’episodico lirismo pianistico di Bestonzo.  Ciò risalta nelle pop-ballad a tinte bluesy di L’anima non esiste e Credo ancora, limpido manifesto idealista del pensiero dell’autore e trova il suo apice nella ode mediterranea di Due parole nella bella interpretazione di Red Canzian.

Certo la fine del percorso è di quelli che rischiano di inchiodare l’ascoltatore dalle parti della disillusione e del velato cinismo.  Le anime in pena descritte in Amy Winehouse e le disarmanti sincerità della strafottente ed efficacissima ballata retrò di Confesso, adombrano un ultimo smarrimento prima del check out finale, eppure è innegabile che di questa lunga rassegna di personaggi della più svariata natura, restino indelebilmente nella memoria ritratti femminili che sprigionano la potenza guaritrice della forza e della tenerezza.  Come la seducente Arianna Cleri che cointerpreta la torbida L’ultima volta (ovvero la versione definitiva della canzone conosciuta sei anni fa dal vivo come Hotel disamore) e la Monia Russo che dialoga con effervescente amabilità nella fiabesca Inquieti e incantevoli.  Infine quello che forse è il reperto più prezioso del disco, Sono fragile il duetto con il canto morbido ed elegante di Delia Gualtiero, voce straordinaria della musica italiana che Porru ha il merito di riportare sotto i riflettori in una ballad pianistica anni’80 densa di nostalgia e alta empatia.

E sullo sfondo la bellissima foto in prima del booklet, una splendida modella in intimo seduta su un letto dell’hotel, nascosta in parte da un asciugamano e un braccio tatuato in forma artistica, in linea con le mode delle giovani millennials.  Una istantanea presentata dal nostro qualche settimana prima dell’uscita del disco, con l’aforisma “ All’Hotel Disamore, si sa, i peccatori guardano il cielo”.

Hotel Disamore è un luogo fisico e insieme categoria dell’anima dove i protagonisti incarnano ad un tempo le vesti di artisti, poeti e parvenu, un ambiente che può creare dipendenza come anche un non meno intenso desiderio di liberazione.