Il Teatro Lirico di Cagliari è un ‘unicum’ nel panorama italiano ed anche europeo. È un teatro moderno e ben costruito in quella che era solo un quarto di secolo fa, la periferia di una città di circa 180.000 abitanti in un’isola, la Sardegna, scarsamente popolata. Riesce a fare ben nove turni di abbonamenti (rispetto ai sei turni che caratterizzano il Teatro dell’Opera di Roma ed il Teatro alla Scala di Milano). E da tre anni ha anche un vasto programma di internazionalizzazione, coproduzioni con la San Francisco Opera, la New City Opera, la Charlotte Opera, una serie di teatri d’opera di università cinesi ed ora con il Brasile. Attira, quindi, pubblico non solo da tutta l’isola ma anche dal resto d’Italia e pure di intenditori stranieri.



Dopo le inaugurazioni “respighiane” del 2016 e del 2017 e quella del 2018 con Turandot di Ferruccio Busoni, quest’anno la stagione è iniziata il 22 febbraio con la prima italiana di un’opera commissionata dal Teatro Comunale di Bologna nel lontano 1888 ma mai andata in scena in Italia (anche se è stata per decenni di gran successo in Brasile ed altri Paesi dell’America Latina). 



Lo Schiavo di Antônio Carlos Gomes (Campinas, 1836 – Belém, 1896), compositore brasiliano che ha vissuto principale tra Milano e la sua villa vicino Lecce tra il 1868 ed il 1888. Gran parte del resto della stagione 2019 ha titoli noti al pubblico italiano (Tosca, La cambiale di matrimonio, Il campanello, Don Giovanni, Attila, Macbeth, Hänsel und Gretel).

A Milano, Gomes fece parte di quel gruppo di compositori che per alcuni anni tentarono di lanciare il grand opéra padano. In cosa consiste il genere (che ebbe notevole successo per circa tre lustri)? Si era in uno dei rari periodi in cui la “musa bizzarra ed altera” (ossia la lirica) era, in Italia, puramente commerciale con guerre tra editori (e tra teatri) alla ricerca di nuovi talenti e di nuove strade che attirassero un pubblico sempre più borghese. Nella Padania (ossia tra Torino e Bologna avendo come punto di riferimento La Scala ed il Dal Verme di Milano) nacque un genere che mutuava elementi dal grand opéra francese (allora ormai superato) e dal wagnerismo (che dopo la prima italiana del Lohengrin nella città felsinea influiva anche sui compositori che vi si opponevano).



La letteratura sul genere è stringata: un saggio fondamentale di Guido Salvetti (alla fine degli Anni Settanta) e lavori più recenti di Giancarlo Landini e di Antonio Caroccia. Il grand opéra padano aveva alcune sue caratteristiche: intrecci complicati in terre lontane (vediamo alcuni titoli: I Lituani di Ponchielli, Guarany di Gomes, Ruy Blas di Marchetti, I Goti di Gobatti) che consentivano di coniugare ballo con canto e davano la stura a “effetti speciali” (incendi, battaglie, crolli); si completava il superamento nei “numeri chiusi” privilegiando tableau con sinfonismo continuo. A questi due elementi – il primo d’origine francese, il secondo d’ispirazione wagneriana – si aggiungeva il perbenismo di un’Italia in via di diventare umbertina ed in cui la borghesia padana aveva la consapevolezza di responsabilità e doveri speciali nell’amalgamare le culture degli “statarelli” su cui si costruivano le ambizioni di un nuovo Stato proteso ad entrare nel novero delle Grandi Potenze (per utilizzare il lessico dell’epoca).

 

Lo Schiavo nacque in questo clima culturale; è un drammone di impianto storico dell’amicizia tra un nobile portoghese ed un schiavo (figlio però di un Re indio), dell’amore del portoghese per un’india, costretta a sposare lo schiavo (il quale fedele all’amico la tratta come una sorella), della rivolta degli schiavi contro i portoghesi e con un finale tragico: lo schiavo fa fuggire i due amanti nella foresta dell’Amazonia e prima di confrontare i suoi si suicida.

Il dramma lirico in quattro atti, su libretto di Alfredo d’Escragnolle, visconte di Taunay e Rodolfo Paravicini (che si occupa sia della traduzione in italiano che di alcune modifiche al testo), ha tutte le caratteristiche del grand opéra padano: opportunità per grandi tableau esotici, danze, interventi corali. Richiede tra l’altro un tenore con un registro di centro ed acuti poderosi – non per nulla quello di Americo (il portoghese) era un ruolo preferito da Enrico Caruso (della cui Gran Romanza del secondo atto esistono registrazioni discografiche), un soprano drammatico e un baritono con arie intrise di melodia. Dopo grandi successi con opere quali Il Guarany, Salvator Rosa, Fosca, Gomes, che pare non avesse un carattere facile, ebbe difficoltà con i propri committenti e rientrò in Brasile dove, lui monarchico, non si allineò affatto con il nuovo assetto repubblicano, e morì i povertà assoluta.

Lo Schiavo venne appresentata, per la prima volta, il 27 settembre 1889 al Teatro Imperiale D. Pedro II di Rio de Janeiro e il compositore la dedicò alla figlia e reggente dell’imperatore, principessa Isabella, che nel 1888, con la celebre “Lei Aurea”, avevo abolito la schiavitù in Brasile. Questo tema resta, però, nello sfondo dell’intreccio, che, secondo i canoni del grand opéra padano, è un drammone con grandi arie, duetti, concertati. Un aspetto interessante della partitura sono le cellule tematiche, non veri e propri motivi conduttori, ma segno che Wagner aveva inciso nel panorama musicale italiano.

L’allestimento del Teatro Lirico di Cagliari è, in coproduzione con il Festival Amazonas de Opera di Manaus (Brasile), e gode dell’importante patrocinio culturale dell’Ambasciata del Brasile in Italia. E probabile che venga visto ed ascoltato anche in altri teatri dell’America Latina.

La regia di Davide Garattini Raimondi (che ha già lavorato per il Teatro Lirico di Cagliari in occasione delle recite de L’ape musicale di Da Ponte in Sardegna ed a New York) è semplice e tradizionale. Molto efficaci le scene di Tiziano Santi, i costumi di Domenico Franchi e la coreografia di Luigia Frattaroli e soprattutto le luci diAlessandro Verazzi, importanti nel fornire l’atmosfera delle albe e dei tramonti in Amazzonia. Dall’integrale vengono necessariamente tagliate le danze del secondo atto: il Lirico cagliaritano non ha un corpo di ballo e sarebbe stato eccessivamente costoso reclutarne uno per un mese (prove comprese).

L’orchestra è diretta con grande sapienza da John Neschling, brasiliano di origine austriaca che mette in risalto le cellule tematiche e gli interludi orchestrali e dà correttamente gli attacchi ai cantanti. Il coro è ben guidato da Donato Sivo.

Massimiliano Pisapia ha il ruolo adorato da Caruso: dispone di un ottimo registro di centro e sfoggia grandi e lunghi acuti. Svetla Vassilleva è la sua amata: un buon soprano drammatico con arie che ricordano della verdiana Aida. Andrea Borghini è uno schiavo melodico quasi più bari-tenorile che bari tenore. Elisa Baldo è la contessa francese che nel secondo atto tenta di sedurre il giovane portoghese e fargli dimenticare l’amata india. Buoni tutti gli altri.

Grandi applausi a scena aperta dopo i principali numeri ed alla fine.

Nell’intervallo dopo il secondo atto, nel foyer gli sponsor hanno offerto a tutti gli spettatori vini, formaggi e salumi sardi.