La Carmen firmata da Jiři Bubeniček, un coreografo della Repubblica Ceca che iniziò la carriera come atleta in un circo equestre della sua famiglia, non è la riproposizione in balletto dell’opera di Georges Bizet su libretto di Meilhac e Halévy. Lo fu una trentina di anni fa la Carmen di Antonio Gades e Carlos Sauras che ha fatto il giro dei cinque continenti e da cui è stato tratto anche un film. Non segue neanche i passi de La tragédie de Carmen di Peter Brook creata a Les Bouffes du Nord di Parigi e che si è vista un quarto di secolo fa al Festival dei due mondi a Spoleto: utilizza parte della musica di Bizet, ma fonde il libretto con spunti dalla novella originale di Prosper Mérimée.
È una Carmen nuova di zecca che ha debuttato il 2 febbraio in un Teatro dell’Opera di Roma colmo in ogni ordine di posti, nonostante la serata piovosa e fredda, da un pubblico non solo curioso ma pronto a reagire a cosa avrebbe osato un coreografo che in gioventù lavorava in un circo. Al levar della bacchetta in buca – dirigeva Louis Lohraseb conosciuto in America ma poco noto in Italia – e del sipario sulla scena, i fucili erano metaforicamente puntanti. Silenzio quasi assoluto per due ore e un quarto (intervallo compreso). Al calar del sipario, un’esplosione non di applausi ma di ovazioni per dieci minuti. Jiři Bubeniček, e il curatore dell’arrangiamento musicale, Gabriele Bonolis avevano vinto la scommessa.
Cos’è questa Carmen? In primo luogo, segue abbastanza rigorosamente la novella di Mérimée; elimina, quindi, personaggi che sono fondamentali nell’opera di Bizet, come Escamillo e Micaela e ne introduce altri come il marito della protagonista Garcìa e un ricco viscido e lussurioso Generale britannico. In secondo luogo, parte dalla fine come nella novella: l’esecuzione di Don José per impiccagione e il suo ricordo, negli ultimi minuti di vita, della vicenda che lo ha trasformato da un giovane di campagna intenzionato a diventare prete, in un soldato e in pluriomicida.
La trasformazione di Don José è il punto centrale del romanzo di Mérimée. Carmen è una cavalla impazzita che nessuno, neanche il marito, tenta più di domare o addestrare. I suoi soli obiettivi sono il sesso – trova tanto gustoso il giovane soldatino – e il denaro – la soddisfano in proposito i superiori di José ed il Generale britannico. Mérimée in persona è a Siviglia e osserva, prendendo appunti, il dipanarsi dell’intreccio. L’accento è quasi più su José (Amar Ramasar) che su Carmen (Rebecca Bianchi). Da giovane timido conosce l’eros e i tradimenti, si associa a trafficanti e uccide a coltellate il marito di Carmen, il proprio tenente e la femme fatale che lo ha rovinato. L’azione è rapida, la coreografia acrobatica, le scene (Gianni Carluccio) e i costumi (Anna Biagiotti) funzionali ed efficaci.
L’aspetto più innovativo è la partitura. Viene utilizzata in buona misura quella di Georges Bizet, ma ri-arrangiata e fusa con brani di Manuel de Falla, Isaac Albéniz, Mario Castelnuovo-Tedesco e Gariele Bonolis. Bonolis ha curato le fusion dei vari brani e ha orchestrato di nuovo il tutto, dando un senso di unità e di coesione. Si ascoltano, ad esempio, l’introduzione di El Amor Brujo e lo “Ataceder” di El Sombrero de Tri Picos di De Falla e la magnifica Siciliana per flauto e chitarra di Castelnuovo-Tedesco senza il flusso orchestrale abbia soluzioni di continuità. L’abilità del maestro concertatore e dell’orchestra hanno indubbiamente merito nel successo dell’operazione che è in gran misura un mirabile pastiche come quelli confezionati da Händel (e altri) in epoca barocca. La musica è densa di tensione e avvince gli ascoltatori
Ottimo il cast e il corpo di ballo. Eleonora Abbagnato sta portando una vera rivoluzione al Teatro dell’Opera.