Cosa è l’amore, e soprattutto l’amore coniugale, se non fiducia reciproca e totale? Questo il messaggio che Ranieri de’ Calzabigi e Christoph W. Gluck lanciarono nel 1762 alla Corte di Vienna con un lavoro che innovò profondamente il teatro musicale: ‘Orfeo e Euridice’. Era una corte cattolica, dove, però, l’adulterio era di casa. Lo lanciarono in modo ancora più pronunciato nel 1774 (adattandolo ai gusti locali, dove la fedeltà era merce rara) nella versione parigina del lavoro (più ricca di azione e di danze). ‘Orfeo e Euridice’ è una delle poche opere del Settecento rimaste nei cartelloni nei secoli successivi. Nell’Ottocento la si è rappresentata nell’adattamento (ai gusti dell’epoca) fattone nel 1859 da Hector Berlioz. Nel Novecento nella versione edita nel 1889 da Ricordi che interpolava l’adattamento di Berlioz con le due versioni originali di Gluck (una del 1762, in italiano, per Vienna ed una del 1774, in francese, per Parigi), nonché con arie di altre opere del compositore boemo.
Alcuni anni fa ha girato per mezza Italia un allestimento fedele alla edizione con cui nel 1762, Gluck effettuò una vera e propria riforma fondendo tutti i mezzi espressivi (parola, musica, danza, mimo) al servizio della verità scenica, sostituendo i ‘recitativi secchi’ con recitativi accompagnati ed introducendo un accordo di sesta aumentato, che può essere considerato come il prozio del wagneriano ‘Tristan Akkord’. Una versione di concerto dell’opera (versione 1762) è stata ascoltata a Milano. Un allestimento scenico molto bello (sempre della versione italiana) è stato offerto nel 2014 al Maggio Musicale Fiorentino ed uno al Cantiere d’Arte di Montepulciano in luglio dello stesso anno, mentre nel 2015 l’edizione francese si è ascoltata e vista a Palermo, in una produzione integrata con i balletti di Marsiglia.
Orfeo è uno dei personaggi mitologici più gettonati, per così dire, dal teatro lirico. Prima ancora che, nel 1607, Claudio Monteverdi componesse la splendida ‘favola in musica’ in tre atti che ci è rimasta integrale, nel 1600 la “Euridice” di Jacopo Peri e nel 1602 quella di Giulio Caccini (anch’esse giunte sino a noi nella loro completezza) la avevano portata in scena negli splendidi saloni di Palazzo Pitti. La prima opera rappresentata in Francia, a Palais Royal, e per desiderio espresso del Cardinal Mazzarino, è l’”Orfeo” di Luigi Rossi. Nella Parigi del Secondo Impero, l’”Orfeo all’Inferno” di Jacques Offenbach prende graziosamente in giro Napoleone III e la sua Corte (Contessa di Castiglione e Costantino Nigra ivi compresi). Nel 1925, con un’opera che suscitò scandali e polemiche a non finire, la magnifica “Orfeide” di Gian Francesco Malipiero (dove c’è un sovrintendente tanto coraggioso da allestirla oggidì?) racchiuse in tre parti, un preludio e sette canzoni il dramma dell’Europa tra le due guerre (e dei tradimenti di chierici grandi e piccoli). Nei più recenti Anni Sessanta, l’”Orfeo Negro” filmato di Marcel Ophuls ci portò a tempo di una lunga samba quasi wagneriana nei meandri dell’Ade multietnico di una Rio che rappresentava tutta l’umanità alla soglia della globalizzazione.
Orfeo si presta al teatro in musica: bello, poeta e cantore tale da ammansire sia le belve della terra sia le furie dell’inferno; innamorato ed amante della propria moglie, scende a patti con gli Dei per riportarla in vita; la desidera, però, tanto, anche e soprattutto carnalmente, da non poter mantenere neanche un accordo molto limitato nel tempo; e perdendola, si perde con lei.
L’”Orfeo e Euridice” di Cristoph Willibald Gluck si distingue dagli altri per due motivi: ha un lieto fine e, nella concezione drammatica e musicale, vuole essere esplicitamente un lavoro di rottura. In omaggio all’intento celebrativo (la prima venne data, a Vienna, il 5 ottobre 1762 in occasione del compleanno dell’Imperatore Francesco I), il protagonista non finisce all’inferno e la “sua” compagna non muore per la seconda volta, ma grazie all’intervento del Dio Amore, vengono tutti perdonati ed invitati ad una festa paradisiaca. Ancora più importante di questo finale è la riforma nell’assetto stesso dell’”opera seria”, l’introduzione della “bella semplicità” in cui l’azione, la musica ed il ballo si fondono in un insieme – i presupposti su cui un secolo più tardi nasce il “musik drama” wagneriano e tutta l’opera del Novecento – dagli eccelsi Strauss e Janacek al teatro musicale di Gian Carlo Menotti
L’allestimento che ha debuttato a Roma il 15 marzo (una coproduzione con il Théâtre de Champs Elysées di Parigi, Château de Versailles Spectacles e la Cadanian Opera Company) ha il grande merito di avere messo in risalto la grande purezza della versione 1762, che in Italia non si proponeva in forma scenica dalla edizione fiorentina del 2014. La regia di Robert Carsen, la scene ed i costumi di Tobias Hoheisel, e le luci dello stesso Carsen e di Peter van der Praet situano il mito in un’arida campagna a seminativo dove i pastori e le ombre dei morti (il sempre eccellente coro guidato da Roberto Gabbiani) si muovono come silhouettes di foto, o di filmati, dell’inizio del Novecento. L’azione scenica è sobria e bastano le luci per indicare i diversi luoghi – la campagna e la discesa agli inferi e la nuova salita a riveder le stelle– e gli umori sottolineati dalla musica.
Di grande livello la concertazione di Gianluca Capuano – uno degli artisti preferiti, a ragione, da Cecilia Bartoli. Rifugge dai barocchismi di maniera quali quelli di una celebre incisione di John Eliot Gardiner, dà una lettura tersa e nitida, nonché molto drammatica (nonostante l’ouverture ed il finale lieto, dovuti – come si è detto – all’occasione celebrativa della prima rappresentazione nel 1762). Inoltre – aspetto fondamentale ma ignorato da numerosi direttori d’orchestra- dà gli attacchi ai cantanti, aumentando la resa complessiva dello spettacolo.
Il vero coup de théátre è il controtenore Carlo Vistoli (Orfeo). La parte scritta per un castrato (come di moda nel 1762) è di solito affidata ad contralto, o a un tenore lirico o peggio ancora un baritono (abbassando il registro di almeno tre ottave). Vistoli è un controtenore di vaglia ed un eccellente attore. Su di lui pesa gran parte dell’opera, non le due o tre famose arie ma soprattutto gli impervi recitativi che scivolano in declamati ed ariosi. Mariangela Sicilia è una Euridice sensuale ed amorosa. Emőke Baráth uno spiritoso e comprensivo Amore.
Grandi applausi. Ovazioni, meritatissime per Vistoli.