Chovanščina di Modest Petrovič Musorgskij sta trionfando al Teatro alla Scala, da dove mancava dal 1998 e dove sarà in scena per quasi quattro settimane. E’ senza dubbio uno degli spettacoli più importanti della stagione ed un candidato naturale al Premio Abbiati 2020. Quali le determinanti?

In primo luogo, l’altissima prestazione dei complessi scaligeri, coro e orchestra. Il coro (guidato da Bruno Casoni) è il vero protagonista di questo “dramma popolare in musica in cinque quadri” (così lo chiamò Musorgskij che non riuscì a finirlo e tanto meno a strumentarlo); i numerosi personaggi – tranne quello di Marfa – entrano ed escono dalle grandi parti corali; ben caratterizzati, ma senza un vero sviluppo psicologico e drammaturgo in quanto il tema è la tragedia eterna del popolo russo. L’orchestra è alle prese con una partitura che non suona da quasi vent’anni e con la difficile orchestrazione di Shostakovich. Inoltre, il direttore d’orchestra Valery Gergiev, che concerta a memoria, utilizza una propria versione in cui diparte dalla cupa, e cupa, orchestrazione di Shostakovich per essere più vicino alle vere intenzioni di Musorgskij: per il finale del secondo atto una lunga nota sostenuta e per quello del quinto atto la ripresa della frase finale del coro, affidando la melodia degli ottoni all’unisono per darle rilievo e lanciare un’indicazione di trascendenza. Vengono effettuati pochissimi tagli nell’immensa partitura (lo spettacolo dura circa quattro ore e mezza). Gergiev dirige con tecnica superba anche per il gesto e trae dall’orchestra la migliore sonorità possibili (data la non ottimale acustica della Scala).



La regia di Mario Martone, le scene di Margherita Palli, i costumi di Ursula Patzak e le luci di Pasquale Mari non sono un’oleografia della Russia del Seicento, l’epoca delle lotte tra fazioni, mentre Pietro Il Grande si accingeva ad ascendere al potere. Ma ci portano in un Mosca visionaria mezzo costruita (con grandi grattacieli) e mezzo distrutta (con baracche). Una Mosca invernale, quindi scura, in cui ai conflitti tra oligarchi, assetati di potere e di sesso, si sommano quelli tra coloro che vogliono ‘modernizzare’ (ossia occidentalizzare) la Russia e quelli che guardano al passato. Si inseriscono anche quelli tra ‘vecchi credenti’ della Chiesa ortodossa russa e coloro che, invece, guardano a quella di Costantinopoli e coloro ancora che vogliono portare verso oriente il luteranesimo tedesco. Quindi una visione della Russia di ieri, di oggi e di domani nel triste pessimismo di un Musorgskij che poco più che quarentenne, distrutto dall’alcol e dalla delusioni, non vedeva speranza per la sua amata patria. Ottima la recitazione dei cantanti.



Uno splendido cast, di cui mi limito a citare i cantanti – attori principali. Ekaterina Semenchuk è una Marfa con note gravi anche nei pianissimi. Il tenore Sergey Skorokhodov è il giovane principe Andrej Chovanskij, da lei amato e con cui si immola nell’olocausto finale (nonostante costui la abbia tradita con la tedesca Emma- un’Evgenia Muravena in stato di grazia, un vero lusso per una parte relativamente piccola). Stanislav Trofimov è un Dosifej al tempo stesso ascetico e grandioso. I due principali contendenti per il potere, ambedue ambiziosi e lascivi, sono Mikhail Petrenko (un Ivan Chovanskij apparentemente “conservatore”, con grandiosità scenica e vocale) e Evgeny Akimov (un Principe Golycin, apparentemente ‘modernizzatore’, un tenore di agilità di classe). Ottimi tutti gli altri.



Chovanščina è poco rappresentata in Italia a ragione dello sforzo produttivo che richiede (numero di personaggi, cori, apparato scenico). A Roma-si pensi-manca dal 1971, se si eccettua una rappresentazione in forma di concerto nel 1992 da parte dei complessi del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo. In effetti, numerose produzioni sceniche viste ed ascoltate in teatri italiani sono state portate da teatri dell’Europa dell’Est, non solo il Bol’šoj ed il Mariinskij ma anche i teatri d’opera di Sofia, di Belgrado, di Lubjana, l’opera nazionale di Varsavia, Radio Praga. Si ricorda una magnifica produzione, a mezzadria con l’Opéra di Parigi, al Teatro Comunale di Firenze nel settembre 2004.

Chovanščina è un titolo a doppio senso: può voler dire “La congiura del Principe Chovanščin” o “Una Pagliacciata”. Scritta e composta a fine Ottocento (il debutto avvenne nel 1886, dopo la morte dell’autore), è di straordinaria attualità. Sulla riva della Moscova, la guardia speciale del leader, complotta, d’intesa con il proprio comandante, contro il Capo politico di tutte le Russie. Le ragioni sono profonde: il Capo politico vuole modernizzare e “occidentalizzare” l’enorme Russia, mentre la guardia speciale, alleata con i settori più tradizionalisti della Chiesa ortodossa russa è “nostalgica” del passato regime. Si susseguono attentati. Ma non mancano spie (soprattutto nei “piani alti” del potere moscovita).

L’opera incompiuta di Modest Mussorgskrij, messa in scena per la prima volta al Kominov Teatr di San Pietroburgo nel 1886 in una versione orchestrata da Rimskij-Korsakov. In gran parte delle produzioni viste ed ascoltate in Italia l’azione è – come da libretto- ai tempi di Pietro Il Grande e delle sue profonde riforme. Anni fa, un’interessante produzione della Bayerischen Staatsoper con regia di Dmitry Thcherniakov, uno degli enfant prodige della scena internazionale, la concertazione di Kent Nagano ed un cast di livello, la situò nella Russia di Putin, con attentati nella metropolitana: la può gustare in un dvd di Unitel Classical, di non facilissimo reperimento nei negozi di dischi italiani.

Il “dramma musicale popolare” di Mussorgskrij riguardava l’avvento al potere di Pietro il Grande (allora giovanissimo) attorno al 1680. Pietro “modernizzatore”, che spostò la capitale a San Pietroburgo, concesse alla popolazione di origine tedesca un quartiere (ed una chiesa nella nuova città) ed accolse i riti della Chiesa ortodossa di Costantinopoli (a cominciare dal segno della Croce). Non poté non attirare contro di sé una strana maggioranza di “vecchi credenti”, di boiardi, e degli strelzi (gli arcieri che dovevano essere il suo corpo speciale). Nella produzione di Monaco si parla dei nostri giorni e dei nostri problemi. In quella scaligera si guarda non solo all’oggi ed allo ieri ma anche al domani.

 

La produzione scaligera e quella di Monaco, a confronto con i precedenti allestimenti italiani dell’opera merita una riflessione. Una delle ragioni del declino dell’opera in Italia è la presentazione di spettacoli polverosi. Le fondazioni liriche italiane non conoscono la funzione del “dramaturg”, tipica di teatri di altri Paesi. Non solo. Una “scuola” di regia di opera lirica ha dominato la scena italiana per decenni: quella delle regie sontuose e accurate ma tradizionali di Visconti, Samaritani, Zeffirelli, Pizzi, Ronconi (nomi di grande livello apprezzati anche all’estero) e dei loro allievi. Tale scuola ha, sotto molto aspetti, frenato tendenze differenti che avvicinavano l’opera ad altri generi di spettacolo dal vivo aperti alla sperimentazione. Questa è una ragione addizionale per premiare lo sforzo della Scala con questa Chovanščina