“Ma eri consapevole di star registrando uno dei dischi più importanti della storia?”. “No, ero fuori di testa e incasinata come al solito”. Solo Beth Orton, un’artista che quando le chiesi perché era venuta a Verona a presentare un suo nuovo disco invece delle usuali città della musica come Milano e Roma dove vanno tutti gli artisti, rispose “Perché è forttutamente meravigliosa” può rispondere in questo modo. Anti star delle anti star, apparentemente ingenua e timorosa, nel momento del passaggio tra secondo e terzo millennio, quando tutti erano coinvolti in quella grande ansia, della fine del mondo o quantomeno del grande caos di Internet che poi non ci fu (neanche la fine del mondo) si impose come la più significativa cantautrice del momento. Non solo: Beth Orton è una delle più significative cantautrici di ogni tempo.
Era il 9 marzo 1999 quando usciva il suo secondo album solista, dopo qualche interessante collaborazione con i Chemical Brothers, “Central Reservation”. Se il precedente, bellissimo anch’esso, “Trailer Park” di due anni prima aveva fatto notare ai pochi attenti, l’esordio di una cantautrice dalle grandi doti, “Central Reservation” era l’esplosione di quel talento. Per lei fu coniato il termine “folktronica”, la solita etichetta che i giornalisti danno quando non sanno in che casella inserire i personaggi talentuosi, capaci appunto di superare ogni classificazione. Voleva dire unione di musica folk ed elettronica, quel disco conteneva 11 pezzi di trascendenza emotiva e profondità dell’animo come non si sentivano dai tempi di “Blue” di Joni Mitchell.
Prodotto in parte dal geniale Ben Watt, ex Everything but the Girl con la partecipazione fra gli altri di Ben Harper, Dr. John e Terry Callier, “Central Reservation” spalancava un mondo sonico nuovo ed emozionante, con una intensità vocale e lirica che per una rara volta non faceva sentire l’ascoltatore uno stupido perché non era capace di soffrire come l’artista. Quella superiorità che era distanza, complessi di inferiorità, ad esempio di personaggi come Leonard Cohen e Bob Dylan, troppo in alto sulla “torre della canzone” per essere a contatto con noi comuni mortali che possiamo solo stare lì sotto ad ammirarli.
Beth Orton era (ed è) una di noi. Ragazza difficile, dal temperamento incasinato, figlia dei dance floor londinesi degli anni 90, in cerca di quel qualcosa di più che rende la vita degna di essere vissuta, Beth Orton in questo disco si mette semplicemente a nudo, crea melodie meravigliose e coinvolgenti, spezza il cuore con quel suo cantato timido e forte allo stesso tempo. Attinge dalla tipica canzone d’autore di matrice folk e la impreziosisce con spruzzi di elettronica mai eccessiva. E’ davvero la musica di fine millennio, un ponte di bellezza che conduce da un’epoca storica a un’altra e calma quell’ansia che prendeva tutti rimandando l’ascoltatore a quello che conta davvero.
Brani come Stolen car, Sweetest decline, Pass in time, la title track, Stars all seem to weep, pongono in primo piano la fragilità di una piccola donna che chiede solo di essere amata e che da quel dolore trova la forza di continuare a guardare oltre senza cadere nella tristezza fine a se stessa ma con quel senso di malinconia che appartiene a tutti, la nostalgia per un Io che la vita moderna ha sommerso nell’apatia. E se Devil song, registrata solo voce e chitarra, quasi un demo, spacca in due il cuore dell’ascoltatore, le intricate infiltrazioni elettroniche di Central Reservation portano a viaggiare in spazi cosmici di rarefatta bellezza.
La cosa forse più sorprendente è che “Central Reservation” non è invecchiato di un giorno, come tutti i grandi dischi della storia, ed è ancora un album stupendo e privo di riempitivi, il miglior set di canzoni che Orton abbia mai scritto: canzoni popolari con un cuore rock e una inclinazione confessionale che non ha mai superato il limite.
“Central Reservation” funziona grazie alla messa a fuoco e all’impegno della cantante per ogni canzone, non esiste una singola performance vocale che non si senta sia autentica al 100%. Il pezzo di apertura, Stolen Car, brucia di energia nervosa, con la chitarra selvaggia di Ben Harper, evidenziando versi come “Sei entrato in casa mia l’altra notte/ Non ho potuto fare a meno di notare/ Una luce che era spenta da tempo che brillava intensa/ Eri seduto, le tue dita come fusi /I tuoi occhi erano cannella”. Dettagli semplici, nitidi e precisi che regolano la scena ma non ti dicono mai direttamente cosa provare. Sono momenti come questo che rendono la cantante un narratore efficace, attirandoti nella natura del momento invece di raccontarti la morale della storia.
C’è poi una gemma assoluta, il duetto con la leggenda del folk americano Terry Callier, in Pass in Time, canzone che tocca il tema doloroso della morte della madre e della possibilità col tempo di accogliere questo dolore. Su Instagram, Beth Orton ha raccontato quel momento: “Incontrare Terry e poi fare musica e cantare con lui è stato quando ho iniziato a credere veramente nella magia. Vidi Terry suonare al Jazz Café intorno al ’97, un regalo a sorpresa di un mio amico per me… A quel tempo non pensavo che i miei idoli esistessero effettivamente al di là della loro musica. Rimasi estasiata per tutto il concerto, un sorriso così ampio e il mio cuore pronto a scoppiare. Poi abbiamo incontrato Terry dopo lo spettacolo. Il suo manager mi suggerì di cantargli una canzone. Cantai Pass in Time con la sua chitarra e lui si mise ad accompagnarmi e il passo successivo fu che ci trovammo in studio a registrarla. Continuavo a darmi dei pizzicotti per rendermi conto che tutto questo stava davvero accadendo… La prima volta che ci siamo esibiti dal vivo ho improvvisamente capito cosa stavamo per fare e mi sono bloccata in piedi davanti al pubblico. Ho sussurrato a Terry “come possiamo farcela?” tanto ero terrorizzata. Lui sorrise e sussurrò “Tu suona e canta come me e io cercherò di suonare e cantare come te” e poi mi prese la mano e uscimmo fuori. Fu il momento più bello della mia vita”.
“Central Reservation” si erge ancora oggi come un trionfale, potente lavoro di un cantautore al suo meglio. A 20 anni dalla sua uscita, non è invecchiato di un solo giorno. Beth Orton, pur con altri grandi dischi incisi in seguito, non è mai stata in grado di migliorarsi se non con queste 11 canzoni definitive, ognuna scritta con perizia, eseguita diligentemente, e magistralmente messe in sequenza. Potrebbe non uscire mai dalla sua bolla cult, che il successo di massa inspiegabilmente non lo ha mai ottenuto, ma finché esiste “Central Reservation”, quel gruppo di appassionati non smetterà mai di crescere: “Tante cose restano sconosciute sin quando viene il loro tempo. Potevi immaginarti che saresti stato così forte e poi che saresti stato a guardare le tue paure che diventano il tuo conforto? Il tuo mare di dubbi che diventa l’unica certezza? Anche se le lacrime non vengono per pianger via il dolore, le lacrime ti aiuteranno a capire veramente di cos’hai bisogno”.