Su queste pagine abbiamo sovente parlato dell’Istituzione universitaria dei concerti (Iuc) della più antica università di Roma, La Sapienza. Perché? Le sue due serie di concerti (una il martedì sera alle 20:30, l’altra il sabato pomeriggio alle 17:30) presentano essenzialmente musica da camera selezionata con cura e con gusto per l’innovazione. Il pubblico è giovane, ma molto sofisticato e attento. La sala (degli anni Trenta) è bella e ha un’ottima acustica. Pur se si è quasi al centro della città, c’è un ottimo parcheggio e non si è distanti da mezzi pubblici (metropolitana, autobus, tram). I prezzi dei biglietti sono a buon mercato. Si respira un’aria genuina di appassionati di musica, senza se e senza ma. E senza orpelli di mondanità. La Iuc opera in grande economia, ma piano piano è giunta alle 74sima stagione con un pubblico fidelizzato e che se ne intende.
Il 9 aprile, è tornato alla Iuc, per un recital, Herbert Schuch, considerato uno dei più interessanti pianisti della sua generazione, con quella che può sembrare una strana coppia: György Ligeti e Ludwig van Beethoven. Quarantenne, nato in Transilvania da famiglia tedesca e trasferitosi giovanissimo in Germania, Herbert Schuch è molto legato all’Italia, perché è stata la vittoria del Concorso “Casagrande” di Terni – noto per aver scoperto alcuni dei migliori pianisti di oggi – ad averlo lanciato in campo internazionale. Da allora è apparso sulle principali scene musicali, tra cui il Festival di Salisburgo, la Philharmonie di Berlino, Elbphilharmonie di Amburgo e il Kennedy Center di Washington.
Ha suonato come solista con le più importanti orchestre in Europa, Russia e Giappone, sotto la direzione di Pierre Boulez, Valery Gergiev e Yannick Nézet-Seguin, per non citarne che alcuni. Nel 2013 ha vinto l’Echo Klassik, il più importante premio discografico tedesco, con un cd che comprendeva il Concerto n. 3 di Beethoven, il suo autore preferito: ha infatti studiato con Alfred Brendel, uno dei più grandi interpreti di Beethoven della nostra epoca, e ha vinto il Concorso Beethoven a Vienna.
Schuch si è imposto fra i musicisti più interessanti della sua generazione anche per le scelte mai scontate dei suoi programmi. Nella prima parte del concerto, infatti, le musiche di György Ligeti e Ludwig van Beethoven sono intercalate, quasi fuse in unica sonata di 45 minuti, in 22 brevissimi movimenti. Si tratta delle undici Bagatelle op. 119 di Beethoven, e degli undici brani di Musica ricercata di Ligeti.
Il titolo beethoveniano si riferisce alla brevità di quei pezzi, non certamente al loro valore da ricercare proprio nell’estrema concentrazione, perché in uno o due minuti è condensata una grande ricchezza di idee: sono tra le opere più straordinarie dell’estrema maturità di Beethoven e, composte in lungo periodo di anni (tra la fine del Settecento e i Venti dell’Ottocento), sono tra i suoi lavori più raffinati per il pianoforte. Ligeti compose Musica ricercata nel 1952-1953, quando era in fase di crisi artistica, terminato il suo periodo bartokiano, in un’Ungheria dove imperversava, anche nella musica, il realismo socialista. La tenne segreta fino al 1969, quando la fece eseguire per la prima volta in pubblico in Svezia; la partitura è diventata molto conosciuta quando nel 1999, venne utilizzata nella colonna sonora di un film di Stanley Kubrick.
Alla base di questi undici pezzi, anch’essi brevi come quelli di Beethoven, sta un principio molto semplice: il primo usa solo due note, il secondo tre e così via, fino all’undicesimo pezzo che usa tutte le dodici note del totale cromatico. È una difficile sfida che Ligeti pone a se stesso, superandola brillantemente con la varietà ritmica, con la capacità di creare melodie con poche note (come la musica popolare della sua Ungheria), con il coraggio di reiterare brevi moduli melodici, creando effetti che precorrono il loop. In tal modo Ligeti riesce a dare a ogni pezzo una sua atmosfera molto particolare.
Il tocco di Schuch è superbo: i 22 brevi brani (alternando con cura e maestria i due compositori vengono – come si è detto – quasi fusi, nonostante le differenze di epoca e di stile: l’ascoltatore ha l’impressione di ascoltare una unica sonata senza tempo. Il pubblico è rimasto incantato.
La seconda parte è stata più tradizionale: due tra le più grandi e le più note opere pianistiche di Beethoven, la Sonata n. 6 in fa maggiore op. 10 n. 2 e la Sonata n. 21 in do maggiore op. 53 nota come “Waldstein” o anche come “Aurora”. La prima è limpida, elegante e anche umoristica, mentre la seconda è un punto culminante del secondo periodo di Beethoven ed è caratterizzata dall’energia, dalla tensione e dalla drammaticità, tanto che fu definita “una Eroica per pianoforte”, paragonandola così alla Terza Sinfonia dello stesso Beethoven. Vivaci applausi e richieste di bis, a cui Schuch ha risposto eseguendo, tra l’altro, un brano da virtuoso: l’Etude S No 3 in sol diesis minore di Liszt.