«Ti posso abbracciare?» chiede una ragazza dalle prime file. Al Teatro Dal Verme di Milano, Nick Cave, il rocker australiano da anni trapiantato a Londra dopo un’esistenza giramondo tra Berlino e il Brasile, si è appena presentato sul palcoscenico per presentare il suo secondo romanzo in vent’anni, “La morte di Bunny Munro” (Feltrinelli) e ha invitato il pubblico a chiedergli qualunque cosa possano voler sapere da lui. Ma questa sera nessuno è alla ricerca di risposte esistenziali o di spiegazioni critico-letterarie.



Nick Cave risponde alla ragazza «Certo!», scende dal palco e davanti a un migliaio di spettatori la abbraccia teneramente. Perché è quello che conta, stasera, mostrare qualcosa dell’affetto e della comunione che lega uno dei più intensi e trascendentali performer della storia del rock a un pubblico che lo ricambia con uguale partecipazione.
Elegantissimo nel suo completo nero gessato, gli anelli d’oro alle dita, accompagnato da solo due membri della sua usuale band, i Bad Seeds, tra cui il fenomenale violinista-chitarrista e stasera anche alle percussioni Warren Ellis, che con i suoi lunghi capelli e la barba ancora più lunga eppure anche lui elegantissimo nel suo vestito e con croce d’oro al collo sembra uscito da un film western di Sam Peckinpah.



Nick Cave si siede per leggere un capitolo della sua fatica letteraria, lo stravagante libro definito da alcuni “il più sconcio mai scritto”, ma anche “un incrocio tra Cormack McCarthy, Franz Kafka e Benny Hill”.
È la storia di un commesso viaggiatore a cui interessa una sola cosa: il sesso. E nel far ciò porta la moglie alla depressione e al suicidio. «Sono stato ispirato a scrivere questa storia» dice Cave «da quello che è il comportamento della maggior parte della popolazione maschile. Mi dispiace per gli uomini, ma è così».
Rimasto solo con il figlio, parte con lui per una sorta di viaggio verso la redenzione, tra disperate nuove avventure sessuali, mentre il piccolo lo accompagna e lo sostiene con amore gratuito, cosciente della presenza misteriosa della madre che non lo abbandona, mentre un inquietante personaggio travestito da demonio si aggira nei dintorni stuprando donne e apparentemente alla ricerca di Bunny stesso.



 

 

Come sempre, dunque, nella poetica di Nick Cave, peccato e redenzione possibile, redenzione che si compie alla fine del libro con il sacrificio del protagonista, la morte di Bunny Munro.
Uno dei capitoli del libro viene letto dallo scrittore italiano Stefano Benni; Cave ne declama altri due, con lo stesso senso di musicalità e dello spettacolo che ha quando canta. E poi canta, appunto, e tanto. Seduto al pianoforte, lasciando trapelare una intensità che ha pochi paragoni nel mondo della musica rock contemporanea, ecco canzoni dell’amore trascendentale come Into Your Arms, Are You The One That I’ve Been Waiting For?, The Love Letter, Lucy, The Weeping Song.

In piedi, poi, a volte con la chitarra elettrica, altre con la acustica e più spesso a mani nude, con le sue movenze tipiche da sciamano, sorta di Jim Morrison reincarnatosi nel corpo di un giovane Mick Jagger, brani travolgenti anche in questa versione unplugged come Tupelo, la luciferina Red Right Hand, l’apocalittica Dig Lazarus Dig, il blues da terzo millennio di Grinderman.
C’è posto anche per una sommessa The Mercy Seat, la canzone del condannato alla sedia elettrica che dice di non aver paura di morire.
E quando intona la liricissima God is in the House, Dio è qua, eseguita con sentimento di partecipazione raro, tutti i presenti possono avvertire che questo momento di musica è davvero uno squarcio verso l’Oltre, una dolente preghiera all’Altro.

Presente, attraverso la musica, attraverso il performer che si fa tramite. «Io sono un acchiappa anime per conto di Dio» disse una volta Nick Cave. E mai questo è stato più evidente di questa sera, al teatro Dal Verme di Milano.