«All’origine di tutto ciò che posseggo c’è l’alfabeto. L’abbecedario su cui imparai a scrivere e leggere: A come albero, B come barca, C come casa, D come dono… dono e destino. Appena prima avevo imparato a tracciare, con mano sicura, gesti antichi: aste, croci, tondi, quadri. Segni e simboli. La parola scritta, la lettura sillabante, lo studio. Sapere e fare. Ricchezza del conversare. Non ho speso bene i miei giorni. Molti li ho sciupati, di molti sono stato spettatore. Troppi li ho macerati, estenuanti, in una sequela di tensioni senza soddisfazione; in guerra con tutto e con me stesso. Me ne sono liberato, a volte con fatica sempre con sollievo».
Comincia così, ricordando quasi l’inizio del Libro dei Libri (“E il verbo si è fatto carne”) l’affascinante, nuovo libro di Giovanni Lindo Ferretti, ex cantante di CCCP prima, CSI poi e infine P.G.R., tutte sigle che significano molto per il popolo del rock, specialmente di sinistra, italiano.
Se “Reduce”, il suo esordio letterario, era frutto di un’urgenza, quella di raccontare il suo cambiamento da paladino rock di una rivoluzione impossibile, a eremita convertito, urgenza che si tramutava in una prosa al limite della poesia e della provocazione, questo “Bella gente d’Appennino” è una vera e propria storia. La sua, e quella della sua famiglia, dei suoi antenati, dei suoi compaesani, lassù sulle montagne dell’Appennino da dove proviene questa “bella gente”.
Diviso in capitoli ognuno dedicato a una lettera dell’alfabeto (“D come dimora”; “C come cavallante”; “I come incarnazione”; ecc.), Ferretti si dilunga inizialmente raccontando le gesta quotidiane della sua famiglia, gente cresciuta in povertà, costretta a emigrare spesso in America, il loro ritorno a casa, i valori forti con cui queste persone si sono confrontate, quelli di un’etica basata su lavoro, sacrifico e fede.
Lavori umili, amori sinceri, passioni forti, ad esempio lo zio Archimede cacciatore di orsi in Alaska e morto sbranato proprio da un orso. Ma anche gli animali, i cavalli di cui Ferretti è tutt’oggi grande appassionato e allevatore: «Se sarà la bellezza a salvare l’uomo, l’uomo salverà il cavallo» dice a un certo punto. «L’idea stessa della bellezza e della proporzione riveste, nella nostra civiltà, le forme dell’uomo e le forme del cavallo: lo certifica la storia dell’arte».
In mezzo le riflessioni di un’esistenza travagliata, la sua, quella di ultimo discendente che aveva tagliato tutti i ponti con la sua stirpe: «Mi sento così stupido, così male, per essere stato complice di una ideologia che distrugge tutto ciò che sono e che amo; ah sì, lo fa per il bene dell’uomo». Che è poi il male dell’uomo moderno, non solo di Ferretti.
Di grande provocazione, ma di assoluto realismo e grande coraggio, è poi il capitolo “I come incarnazione”: qui Ferretti dà i nomi che devono essere dati. Lì dà a chi ha tranciato i legami con un sistema che ha retto nell’amore generazioni su generazioni («Chi è sradicato sradica, sradica chi è sradicato»), li dà a chi ha fatto oggi della fede una filosofia senza, appunto, incarnazione: «(…) la nouvelle vague teologica sociale che: sì c’era (il Cristo, nda), l’han visto ma non si vede più e poiché siamo adulti, mettiamoci in cerchio, facciamoci un applauso che siam bravi, abbracciamoci, stringiamoci la mano, diamoci del tu».
Arrampicato sulle sue montagne, Ferretti è un profeta dei tempi moderni, un moralista come lo erano i profeti della Bibbia, e perciò è profondamente umano e coinvolto con il suo essere uomo di carne: «Eppure l’uomo nasce e affonda in un mistero che lo nutre e lo avvolge, lo attrae e lo respinge. Lo sovrasta».
Ragionevolezza, riconoscenza della realtà, e scelta di vita: «Io, come bambino, perché non si finisce mai di crescere finché si muore, ascolto, volto alla Cattedra di Pietro, il Santo Padre in quello che è suo carisma e sua missione: essere sigillo, garante della Tradizione, presenza dell’Incarnazione». La storia di un uomo moderno. La storia di un ritorno a casa, tra la bella gente d’Appennino.