Idolo di cartapesta della musica più commerciale con contorno di fans fanatici e adoranti. Uomo dalla vita privata indecifrabile con sospetti (mai comprovati però) di pedofilia. Nero ossessionato dall’aver la pelle nera, dal culto del corpo e della sua conservazione, protagonista infine di una morte improvvisa circondata di mistero e ambiguità. Questa l’aura che avvolge, per i media, la figura di Michael Jackson. Peccato però che l’altra metà del pianeta ne pianga il mito e la leggenda, fra ricordi d’infanzia e vedovanze inconsolabili, come per John Lennon, Jim Morrison o Maria Callas.
Michael Jackson è tornato prepotentemente sulla scena grazie all’uscita mondiale di “This is it”, il documentario che, nato come “making” da affiancare al futuro dvd che sarebbe stato realizzato dai concerti londinesi, è diventato l’ultima testimonianza del suo lavoro d’artista, con la non celata intenzione di recuperare parte dell’enorme investimento per uno show che non vedrà mai la luce. Dunque un film-evento, uscito l’ultimo week end in contemporanea in tutto il pianeta e che ha fruttato al botteghino 32 milioni di dollari in Usa e 101 in tutto il mondo, con una classifica che vede seguire agli Usa il Giappone (10,4 milioni), la Gran Bretagna (7,6), la Germania (6,3), la Francia (5,8), l’Australia (3,6) e infine la Cina (3,2). Da noi buona partenza con 2,1 milioni complessivi, ma col passaparola la cifra è destinata a lievitare.
In Sony-Columbia tirano un sospiro di sollievo, visto che avevano speso 60 milioni di dollari per accaparrarsi i diritti del film, e comunicano soddisfatti che anche il cd relativo sta andando a gonfie vele.
Sono andato a vederlo per pura curiosità-necessità professionale e la prima sensazione è stata quella di ritornare quindicenne ai tempi di “Let it be”, il film documentario uscito nel 1970 a Beatles ormai defunti (disciolti in quel caso). E come per quel film la prima sensazione è stata di entrare nel laboratorio artigianale di Jackson, e di scoprirlo assai più interessante e affascinante del previsto.
Innanzitutto il carisma dell’artista fotografato nel corso delle prove: diretto, senza mediazioni, che vorrebbe esprimersi al risparmio (come fa ogni performer prima del debutto) ma alla fine non ce la fa a trattenersi e accenna, anche se brevemente, passi e vocalizzi raffinatissimi.
Non era Madonna, il nostro, nessun volontarismo a sublimare un dono in partenza modesto. Jackson era puro talento, sia coreografico che musicale, e la macchina dello spettacolo serviva semplicemente a moltiplicarne il potenziale.
In “This is it” si ritrova il solido gusto americano per lo show perfetto, il culto del numero provato e riprovato infinite volte in cerca della perfezione, il tutto secondo un gusto moderno, attuale, tecnologicamente aggiornatissimo. Ma si ritrovano anche il suo rapporto con l’arte, il gusto del sound, il respiro interpretativo maturati lungo oltre quarant’anni di carriera (cominciata negli anni dell’infanzia, al servizio del padre padrone e della band dei fratelli di cui era il singolare front-man formato bambino).
Poi c’è la radice nera, quel funky figlio del soul e del rythm’n blues che se nella scelta della bionda chitarrista hard con cui Michael divide la scena (guardateli duettare in Beat it!) rappresenta l’ammiccamento furbo al pubblico bianco, in realtà è quasi totalmente affidato al talento di musicisti di colore.
Non mancano i colpacci hollywoodiani: il duetto virtuale con Rita Hayworth in Gilda, i fondali cool alla "West Side Story", la foresta amazzonica da salvare con bambine e farfalle insieme all’intero pianeta, persino la predica finale con tutto il cast mano nella mano alla vigilia di un debutto che non avverrà mai: «Siamo qui per dare alla gente evasione, talento e un messaggio d’amore».
Così i ragazzi della sua compagnia, scelti con modalità che ricordano un reality, sono complici e insieme fratelli. E il primo pubblico del Michael ritrovato sono loro, loro a spingerlo a rompere il riserbo delle prove, loro a scatenarne commozioni ed entusiasmi, loro a rilanciare il suo “messaggio”. Che è poi lo stesso che ne fece la fortuna all’inizio degli anni Ottanta con l’epopea, mai più ripetuta, di “Thriller”, disco epocale che conteneva Billie Jean, The girl is mine, Wanna be startin’ somethin’, Beat it e appunto la stessa Thriller, la cui ultima trasformazione video in 3D del nuovo show avrebbe lasciato un segno.
Dopo la rivoluzione di Dylan e Cohen, dopo la canzone di parola e la canzone di poesia, nasceva l’avventura del corpo danzante, del passo concentrato e nervoso, della parola-gesto che parla più di mille parole rock. E se a milioni nel pianeta corrono nei cinema a rivedere quest’ultimo suo canto del cigno, è in nome di quella scoperta di venticinque anni fa. Muoversi, muoversi al tempo e al passo di Michael, in una dimensione dolce e fatalmente infantile.
L’horror, la sessualità imprecisata, il sentimentalismo caramelloso, l’ecologismo, la voce sottile e aggraziata, il corpo eternamente agile e giovane. Ecco il catalogo Jackson che il mondo ammirava e che tanti ragazzi hanno continuato ad imitare.
Eppure nel film ci ha commosso su tutto una clip dedicata ai Jackson 5 di I want you back. Impeccabili showman, splendidi vocalisti, esperti professionisti, quei fratelli in forma di band non ti facevano star fermo, anche nell’impegnatissimo 1970. E quel cantante alto un soldo di cacio, ma dal sorriso e dalla vocina contagiose, rappresentava la freschezza in persona.
Probabilmente gli han rovinato la vita, ma in cambio di gioia e bellezza. Se c’è un paradiso per i bambini-prodigio, dal piccolo Mozart al piccolo Michael, è un posto dove nessuno chiederà più loro di salire in palcoscenico.