Gli ultimi due album degli U2, “All That You Can’t Leave Behind” e “How to Dismantle an Atomic Bomb”, sono stati deludenti per tutti coloro che sono da sempre stati sintonizzati sulla “mission” di questa band.

Per un certo verso, questi album suonavano bene, sia come grandi album di rock che come album degli U2. Non suonavano però come erano riusciti a fare in quella fase precisa, che va da “Boy” ad “Achtung Baby”.
Non giudico gli album intermedi “Zooropa” e “Pop”, che raccolgono essenzialmente  elementi sparsi delle sperimentazioni che seguirono la vera rivoluzione che accadde nell’immaginazione del gruppo al tempo della straordinaria opera del 1991: “Achtung Baby”.
Gli ultimi album non si possono scusare con queste motivazioni, visto che sono stati prodotti con calma e dopo tutta la riflessione necessaria.



Per molte persone, l’idea che non ci fosse niente di sbagliato in questi album avrebbe potuto sembrare soddisfacente. Sicuramente, ebbero grande successo e con il successo è difficile litigare. Sicuramente la musica aveva risonanze e riferimenti che evocavano momenti diversi del lungo viaggio della band, anche se sembrava più interessata ad affermare il ruolo degli U2 come la più importante rock ‘n’ roll band del mondo rispetto ai reali intenti degli inizi.
Gli U2 hanno sempre promesso di più. Hanno sempre promesso come significato e missione, poi intrapresa, di liberare il rock ‘n’ roll dalla sua ossessione dionisiaca.
Hanno sempre detto che la parola può andare lontano se è ascoltata per quello che dice.



Raccolsero un mezzo espressivo ormai logoro e nascosto per riagganciarlo alle proprie radici, chiedendo al pop non meno di quello per cui era nato.
Erano partiti come illetterati del pop, acquisirono poi una competenza fantastica con cui misero in rilievo il loro scopo ambizioso. Sembravano in grado di parlare del cuore umano, sfidando le nozioni culturali imposte e utilizzando quelle nozioni come materiale per la loro creatività.
Hanno sempre parlato di rock ‘n’ roll come di una missione sacra, che i loro seguaci hanno capito, più recentemente, trascende le semplicità evangeliche dei primi anni.



C’era qualcosa che parlava di redenzione, del ritorno della musica del diavolo, della lotta per liberare la chitarra dalla stretta dell’angelo nero, di alcune connessioni tra ispirazione e fede, ragione e umiltà, amore e rigore, speranza e desiderio.
Non si trattava solo di dare un buon suono di chitarra a Dio, ma di mostrare come qualche connessione finora poco plausibile poteva essere estesa nella stratosfera dell’immaginazione pop, infiltrando la coscienza secolare con qualcosa al di là della moda e dell’innoffensivo.
Si trattava di dare voce a cose che noi tutti sentiamo, dentro, ma che non erano autorizzate a parlare.

Questo obiettivo, anche se implicito, era sempre davanti alla band, un’ambizione non ben definita ma radicata, che prometteva qualcosa di straordinario per quelli accettavano di starci. Con “The Joshua Tree” e “Achtung Baby”, si è avuta la sensazione che l’obiettivo avesse smesso di muoversi a sinistra nella coda dell’occhio e stesse per essere fissato. Gli U2, così sembrava, stavano per raggiungere e toccare ciò per cui esistevano.
Ma l’obiettivo ha continuato a muoversi e, cosa ancor più preoccupante, gli U2 sembravano non accorgersene, continuando a parlare di come la musica fosse più che una distrazione e della possibilità di questo mezzo espressivo di fare la differenza al di là della pista di ballo; continuando a fare musica che sembrava non cogliere più il punto della loro stessa esistenza. Quella musica era senza dubbio la loro musica, ma sotto l’involucro non si scorgeva nulla.

Questa crisi è stata largamente ignorata all’interno della cultura in cui vivono gli U2. Forse, anche se sembra improbabile, non è stata avvertita nemmeno dai componenti stessi del gruppo. Dato che il problema sembrava sorgere dalla progressiva atomizzazione della band, forse il processo reale di caduta ha aiutato a nascondere la caduta stessa.
Negli U2 l’insieme è sempre stato di molto superiore alle parti. Tuttavia, la loro musica più recente dava la sensazione che ciò che veniva rappresentato non era più una passione nata dall’amicizia e dalle aspirazioni comuni, ma quattro forme individuali di maestria acquisite insieme e ora in via di rapida divergenza.
Nella prevedibile grammatica delle loro canzoni più recenti, nella adesione alla moda, nella frequente autoreferenza di Bono nel cantare i suoi testi, c’era un percettibile  indizio che ci diceva che ciò cui ognuno dei quattro stava offrendo fosse definito meno dalla dinamica interna che aveva reso grande la band e sempre più da un linguaggio appartenente al mondo esterno. Gli U2, a un certo punto, si sono chiusi dentro quei codici che avevano sovvertito inizialmente. Non sembravano più capaci di accedere a quella “incoscienza collettiva” che li aveva fatti grandi.

Forse sarebbe più vero dire che questa incoscienza non si sentiva più nelle registrazioni. Nelle performance dal vivo la qualità rimaneva relativamente intatta, ma i quattro sembravano incapaci di catturare la crescita di questa personalità nelle loro incisioni. La storia che volevano raccontare sembrava essersi esaurita nei primi 15 anni, della loro esistenza. Qualunque fosse il motivo, la loro nuova musica sembrava girare in circolo, sembrava essere una versione concentrata dell’essenza si poteva identificare nei loro primi lavori.
Gli U2, che hanno sempre pensato di avere una qualità essenziale non descrivibile né replicabile, sembravano voler imprigionare loro stessi questa essenza, così da mantenere il loro status, nell’attesa di una nuova elaborazione su cosa fare.

Tutto questo rende così gradito l’arrivo di “No Line on the Horizon”, un album che di colpo consolida la posizione degli U2 come la più grande rock ‘n’ roll band del mondo e riafferma la loro missione principale di sovvertire le pseudo-realtà costruite dall’uomo che ostacolano il nostro sguardo.
È una prova sia di movimento in avanti che di comprensione più profonda del rapporto tra musica e significato.
In un modo sottile, senza disturbare il sound o la loro sensibilità, ci conduce in qualche luogo nuovo.

Cosa può fare la musica pop? Quasi niente, si potrebbe pensare, e tuttavia…
Nel mio libro del 1994 sugli U2, “Race of Angels”, di fronte a questa domanda concludevo che tutto arrivò in un momento di solitudine della città universale, contrastata da una versione costruita della realtà che escludeva tranquillamente la realtà creata che stava dietro.
E al centro di questa nullità, “siede l’io” umano inutile e abbandonato, alla fine di ciò che Springsteen chiamava “la giornata duramente guadagnata”. Poi, fuori dall’oscurità del rumore e dalle consapevoli sciocchezze emerge una parola, una frase, un suono, qualcosa che fa dissolvere la versione costruita della realtà, anche se solo momentaneamente, per lasciare a nudo la verità delle relazioni umane con l’universo creato.

La grande musica, di ogni genere, comporta la creazione di una colonna sonora in cui la persona possa sperare di sentire, in quei momenti di quasi disperazione in cui la realtà fatta dall’uomo raggiunge i limiti esterni della sua plausibilità, qualcosa che lo metta in relazione con la più ampia tela.
Questo è quanto ci possiamo aspettare dagli U2. È chiedere molto, ma non troppo. Non ne parleremmo neppure, se la band non avesse già mostrato di essere capace di sorprendere, ma presi talvolta nel gioco della sopravvivenza, nel costante sforzo di mantenere il loro posto nella realtà costruita, finiscono per dimenticare, o eludere o lasciare andare le cose fino a un momento più propizio. Questo trasforma la promessa in una bugia vivente.

Tuttavia, in questo album loro, o forse si dovrebbe dire “lui”, Bono, sembra essere conscio, per tutto il tempo, della missione di sovvertire ciò che è supposto essere.
Canta meglio che mai e sembra essere di nuovo a casa sua nel sound che il resto della band gli crea attorno. Le sue parole suonano nuovamente vere.

Dal brano che dà il titolo all’album: «Conosco una ragazza con un buco nel cuore/ Ha detto che l’infinito è un grande posto da cui partire/ Oh oh oh oh oh oh oh/ Ha detto “Il tempo è irrilevante, non è lineare”/ Poi ha messo la sua lingua nel mio orecchio/ Oh oh oh oh oh oh oh».
La missione degli U2, oltre che portare il mondo secolarizzato faccia a faccia con quello sacro, è stata anche di ricordarci che siamo sia spirito che carne.

O questo estratto da Magnificent: «Sono nato/ Sono nato per cantare per te/ Non avevo altra scelta che tirarti su/ E canterò qualunque canzone che tu vorrai io canti/ Ti darò indietro la mia voce/ Dal grembo il mio primo pianto, era un rumore di gioia».

O questo da Moment of Surrender: «Sono stato in tutti i buchi neri/ All’altare della stella scura/ Il mio corpo ora è una scodella da mendicante/ Che mendica di tornare/ Che mendica di tornare/Al mio udire /Al ritmo della mia anima/Al ritmo della mia incoscienza/ Al ritmo che desidera/ Di essere liberato dal controllo».

È a questo livello che questo album merita di essere valutato. E ancora è il caso che un album venga descritto senza riferirsi alle qualità di una singola canzone. Come i suoi formidabili predecessori “The Joshua Tree” e “Achtung Baby”, ha un’integrità che deve tanto all’umore quanto al modo di suonare, o alle parole.
Gli U2 sono stati brevemente, nella fase centrale, le canzoni. In verità, recentemente sono stati uno scatenarsi proustiano attraverso le macerie di una musica che è avvenuta troppo rapidamente per la chiarezza, scavando pezzi che sembravano poter contenere più di quanto apparisse la prima volta.
In queste registrazioni, si continuano a sentire brani con allusioni elusive che ti portano a un livello più profondo di memoria, ma in qualche modo riscattate attraverso un filtro che riconosce e applica un senso più profondo di ciò che il cuore dell’uomo desidera.

In un certo senso, gli U2 hanno sprecato un decennio cercando una modalità che non compromettesse la loro posizione commerciale, fino a quando si sono accorti di dover correre il rischio di buttare via l’audience per poter completare la loro missione.
Per molto tempo è sembrato che la band stesse correndo da ferma, rimanendo immobile mentre suggeriva un movimento radicale, persa nello spazio e nel tempo senza nessuna indicazione di quale fosse la prossima meta.
Con questo album, gli U2 hanno ricominciato a muoversi, per iniziare un ulteriore passo nell’improbabile.