Ci sono snodi temporali che sembrano riassumere in sé un’epoca e insieme aprire prospettive inattese a quelle che verranno, e uno di questi fu certamente il mese di agosto 1969, passato alla storia soprattutto per l’epopea di Woodstock. In quell’occasione parve proprio che il rock, in tutte le sue varie ramificazioni, fosse destinato a prendere nell’immaginario popolare il posto del jazz, lanciatosi a razzo verso la stagione dell’esperienza free, musicalmente fervidissima eppure decisamente esoterica, con pochissimi e casuali appigli al gusto corrente.



Soltanto un musicista fuori da qualunque schema e aperto a tutte le esperienze musicali poteva sperare di ricondurre in un’opera compiuta tutti i diversi ambiti nei quali si era frammentato il mondo delle sette note, e naturalmente il solo in grado di operare il miracolo fu Miles Davis, che proprio il giorno dopo la fine di Woodstock, martedì 19 agosto, entrò nello studio B della Columbia a New York per iniziare le registrazioni di “Bitches Brew”, uno dei suoi tanti capolavori, ma certo quello che più spiazzò la critica jazz e anche quella rock per la sua novità.



Il provocatorio titolo giocava con “Witches’ Brew”, mistura delle streghe, già nota alla civiltà occidentale fin dalla prima scena del Macbeth shakespeariano, ma il termine “bitch” ha una connotazione assai ampia per gli afroamericani, da quello offensivo di “prostituta” a quello ammirativo di “grandiosa/o”, quasi che Davis volesse parlare simultaneamente del bene e del male, del mondo materiale e di quello spirituale, oppure del mondo “bianco” e di quello “nero”.

Quest’ultimo effetto è accentuato dalla meravigliosa copertina di Mati Klarwein – già noto per l’Annunciazione afro sulla copertina di Abraxas dei Santana – in cui il volto bianco e quello nero non sono opposti ma complementari, anche nei tratti somatici, come dire che la razza bianca discende dalla razza nera, dato questo peraltro confermato dalle recenti ricerche, o come per rimarcare una risonanza alchemica.



Ma non solo questo aveva in mente l’ineffabile Miles: il doppio LP originario prevedeva infatti una successione dei brani corrispondente a un vero e proprio viaggio iniziatico, una sorta di catabasi deprivata di qualunque guida spirituale, con Davis nelle vesti di Enea senza la Sibilla o di Dante senza Virgilio. Piuttosto, il trombettista sembra quasi tradurre in musica l’affermazione di Nietsche secondo cui la verità tocca solo a chi si è sporcato il cuore, e allora proviamo a seguirlo in questo viaggio.

Detto per inciso, oggi tutte le incisioni sono disponibili nel cofanetto “The Complete Bitches Brew Sessions”, ma si può ancora seguire l’originale intenzione davisiana con la ristampa Sony del 1999 su doppio CD, che ha in coda un brano in più, Feio, registrato sei mesi dopo e rimasto inedito.

Già l’inizio chiarisce subito il senso del viaggio col brano Pharaoh’s Dance di Joe Zawinul, il cui titolo può chiarirci molte idee; la moglie di Davis all’epoca delle registrazioni, Frances Taylor, era una danzatrice che lavorava nella compagnia di Katherine Durham, coreografa, ma anche antropologa, e senza dubbio Davis apprese da lei, che lo aveva introdotto al flamenco e alla musica africana, come alla corte dei Faraoni fossero ricercatissimi i pigmei per la loro bravura come danzatori e cantori, anche per quel modo strano e nuovo di cantare (era la polifonia, ignota all’area mediterranea prevalentemente monodica).

(continua…)