Agosto 1969: il rock vive l’epopea irripetibile di Woodstock. Il giorno seguente, martedì 19 agosto iniziano le registrazioni di uno dei dischi più importanti, inimitabili e scioccanti della storia del Jazz: “Bitches Brew”. Il leader di una formazione strepitosa è ovviamente Miles Davis. La seconda puntata dell’approfondimento di Francesco Chiari.



Lo stesso Nilo è l’unico fiume che congiunge Africa bianca e Africa nera, per cui qui Davis e i suoi uomini paiono voler congiungere davvero due mondi opposti ma non antitetici coniugando fisicità ritmica e tramatura melodica. Subito dopo, però, il brano che intitola il disco ci porta in un’atmosfera infernale, da incubo, e qui viene alla mente un riferimento non musicale ma letterario, il racconto di Conrad “Cuore di tenebra”, con quel suo viaggio al centro del continente africano che diventa anche viaggio all’interno della tenebra umana, elemento accentuato dagli echi di sabba notturno, riflessi nella tenebrosità della tessitura.



A questo punto, l’ascoltatore doveva cambiare disco, se ancora non si era ripreso dallo choc, e qui scattava la seconda sorpresa, in quanto la musica col procedere dei solchi si schiariva, recuperava luminosità, si faceva prossima a noi presentandoci una visione diversa del mondo; anche qui sembra calzante il paragone dantesco, giacché Davis passato oltre Lucifero riemergeva sulla spiaggia della montagna del Purgatorio per prepararsi al viaggio verso le stelle.

E difatti la gioia di suonare che pervade Spanish Key – ancora un riferimento al flamenco che la moglie gli aveva fatto scoprire – continua nella vetrina solistica di John McLaughlin, dedicata ovviamente al chitarrista inglese, per esplodere nella solarità di Miles Runs The Voodoo Down, la cui contagiosa immediatezza gli fruttò anche un’uscita su due facciate di un 45 giri. Ma la sorpresa più grande arriva col finale, Sanctuary, tema dal titolo evocativo scritto da Wayne Shorter, qui inconfondibile col suo sax soprano: è una vera e propria preghiera estatica, nella quale sembra ogni tanto sentire evocati gli intensi melismi di alcuni dei grandi cantori gospel, come R.H. Harris dei Soul Stirrers o Ira Tucker dei Dixie Hummingbirds.



Miles Davis aveva smesso di andare in chiesa a nove anni perché, come ricordò in seguito, si era scocciato di sentirsi chiamare “peccatore” quando non aveva fatto nulla di male, e rimase tutta la vita un ateo convinto, ma qui, dopo averci esposto la sua rivisitazione personale dell’intera storia della musica afroamericana, non può fare a meno di proclamare in musica quanto la componente religiosa abbia plasmato la storia del suo popolo e quindi indirettamente anche la sua.

Mentre Davis dipanava la sua narrazione in musica, il mondo del rock, era scosso da cambiamenti ricchi di conseguenze dall’enorme portata: mercoledì 20 agosto i Beatles avevano registrato insieme per l’ultima volta e due giorni dopo si erano fatti fotografare insieme sempre per l’ultima volta, la morte del chitarrista Brian Jones aveva chiuso un capitolo nella storia dei Rolling Stones che nel dicembre successivo avrebbero celebrato quella sorta di “anti- Woodstock” che fu il concerto californiano ad Altamont, con vari morti tra il pubblico e un attentato alla vita di Mick Jagger.

Insomma, nonostante le lezioni di yoga e i proclami di “pace, amore e musica”, il mondo si preparava ad andare da tutt’altra parte, pronto soprattutto a smorzare i contenuti rivoluzionari, veri o presunti, del rock per renderli funzionali al proprio discorso politico ed economico.
Dopo quarant’anni siamo forse arrivati al punto di non ritorno, come dimostra la mancanza di sponsor per celebrare il quarantennale di Woodstock, riprova che – come testimoniato da una inchiesta dell’Espresso – ormai il rock è soprattutto un concetto affaristico; dal canto suo, l’esperienza davisiana che si dipanò da “Bitches Brew” in poi ha davvero inciso sul mondo della musica e non solo, e si veda un capolavoro come “On The Corner” del 1972, che quando uscì – ricordo benissimo – fu preso quasi a pernacchie dagli appassionati più anziani, ma le cui profetiche trame ritmiche informano di sé il nostro panorama sonoro quotidiano.

Forse questa è la più grande lezione lasciataci da Davis, non temere nel confrontarci col mondo esterno e con la nostra storia, in quanto sono le uniche occasioni da cui ricavare insegnamenti validi per tutti.

(Francesco Chiari)