Walter Gatti propone ai lettori de ilsussidiario.net tre libri per l’estate, dedicati al rock. Si passa da Michael Lang, l’organizzatore di Woodstock, che racconta la sua esperienza a quarant’anni dall’evento, alle atmosfere sinistre di Zachary Lazar nei gironi infernali del rock. Infine il percorso umano di Yusuf Islam, Cat Stevens.
“Woodstock” di Michael Lang
(Arcana editore, 240 pag; 18,50€)
Nella massa di libri dedicati al festival di Woodstock, il consiglio cade sull’unico veramente impedibile, vale a dire queste memorie di Michael Lang raccontate in collaborazione con il giornalista del Rolling Stone Holly George-Warren.
Lang, ricordiamolo, è uno dei quattro organizzatori del festival che dal 15 al 17 agosto ’69 portò oltre cinquecentomila giovani nella fattoria di Max Yasgur, a Bethel, per ascoltare decine di rockstar, tra cui Hendrix e Santana, Crosby, Stills, Nash & Young e gli Who, per un concerto passato alla storia per il suo essere celebrazione perfetta dell’Era dell’Acquario.
Il libro racconta tutto, a partire dai giorni adolescenziali del giovane Michael, il suo trasferimento nella New York degli hippy, l’organizzazione dei primi concerti, poi l’amicizia con Artie Kornfeld, l’incontro con i due ricconi Rosenman e Roberts, l’avventura di Woodstock.
Sarcastico e senza astio verso la fine della Woodstock ventures (la società che creò il business del festival e da cui Lang e Kornfeld furono estromessi con poche migliaia di dollari), Michael termina il suo libro con un collegamento molto contemporaneo: Woodstock ’69, Washington 2009, insediamento di Obama alla Casa Bianca.
E riporta, come parole finali, il testo di una poesia di Hendrix: “Lo splendore di 500 aureole ha eclissato il fango e la storia. Ci siamo lavati e abbiamo bevuto le lacrime della gioia di Dio. Per una volta, e per ciascuno, la verità ha cessato di essere un mistero”. Poetico o retorico? A me è piaciuto: da leggere come una testimonianza storica.
“Sway” di Zachary Lazar
(Einaudi Stile Libero, 270 pag; 18,00€)
Questo libro ha avuto un successo enorme nel mondo del rock e dei suoi discepoli, quindi un qualche “senso” dovrà pur averlo. È ciò che ho pensato iniziando a leggerlo. Le sue pagine si dipanano seguendo le vicende dei Rolling Stones di Mick Jagger e Keith Richards, che si intrecciano con quelle del regista underground Kenneth Anger, celebre filmaker gay, finiscono con il coinvolgere Charles Manson, gli Hell’s angels ad Altamont, libri satanici, film oscuri e spiritisti, donne belle sempre e comunque disponibili e hippy che finiscono nel tritacarne della storia loro malgrado.
Sembra non esserci fine in questa corsa senza fiato che parte dai giorni belli degli Stones e finisce in una palude di desolazione decadente, dimostrazione che il male striscia su strade apparentemente vincenti. Il “senso” di cui si parlava all’inizio? Forse risiede nel fatto che mister Zachary è riuscito a rappresentare con forza bruta la parte oscura e inquietante del rock degli anni Sessanta. Alcool, stupefacenti, sesso in ogni sua accezione trasversale, satanismo, spiritismo, morti, ambiguità, violenza, sangue: nulla di ciò che positivamente il festival di Woodstock ha cercato di esprimere trova qui conferma.
Proprio mentre la generazione dell’Acquario cercava la sua Terra promessa, un’altra “nazione”, oscura e perduta, viveva i suoi giorni maledetti e il racconto di Zachary Lazar lo documenta con scrittura efficace basata su documentazione attendibile. Libro ambiguo, maleodorante e (a modo suo) riuscitissimo, anche se è chiaro che il gusto per il torbido, per il violento e per il marcio fa parte di un marketing generazionale che funziona al di là di ogni qualità letteraria. Un’avvertenza: rimangano alla larga i romantici delle sette note.
“Da Cat Stevens a Yusuf Islam” di David Nieri
(Pacini editore, pag 156; 14.00€)
Pochi musicisti hanno avuto il dono della canzone perfetta come Cat Stevens. Tre le sue identità storiche: nato come Steven Demetre Georgiou, prende il nome di Cat Stevens dagli inizi della sua attività musicale nella Londra del beat fino al 1979, quando – convertito all’Islam – inizia a farsi chiamare Yusuf Islam.
Per ripercorrere oggi la traiettoria umana e artistica di Cat-Yusuf, tornato dopo decenni di silenzio alla canzone, questo libro è un buon compagno.
Scritto da un giornalista-fan che per fortuna usa intelligenza e scrittura per raccontare (non ci troviamo di fronte a un’opera apologetica), il libro unisce la traccia storica dei fatti alla guida ragionata a dischi e canzoni di un autore che ha scritto tali e tanti capolavori (Father and son, Moonshadow, Where do the children play, Peacetrain, Rubylove, Wild world, Lady D’Arbanville…) da essere giustamente nel novero dei più grandi di sempre. E visto che di Cat-Yusuf il momento forse più importante è stata la sua conversione e il suo ritiro, l’autore dedica un buon capitolo a ciò che accaduto “dopo” quel fatidico novembre ’79, tra opere di carità, attività culturali ed educative rivolte ai bimbi musulmani di Londra fino ad arrivare agli scontri con la cultura-intellighenzia anglo-americana (a causa di alcune sue dichiarazioni su Salman Rushdie), che gli meritarono problemi in ogni parte del mondo.
Oggi Yusuf è tornato con un paio di bei dischi, “An other cup” (2006) e “Roadsinger” (2009) e questo libro può essere un buon compagno estivo per rileggerne la storia. A patto, però, di ascoltarne in sincronia i dischi più belli, da “Tea for the tillerman” al magnifico live “Majikat”.
(Walter Gatti)