Al suo settimo disco, Patty Griffin centra il titolo indimenticabile. In attività dal ’92 come folksinger nei piccoli club di Boston, Patty è ormai una delle più note country singer degli States, autrice e musicista dal curriculum stellare, stimata dai migliori che fanno a gara a incidere le sue canzoni. In questi giorni esce in tutto il mondo il suo nuovo lavoro, “Downtown Church”, un album di gospel songs tutto da raccontare.
Le parole di questo racconto sono proprio le sue, quelle di Patty: «Ho deciso di fare un disco di gospel perché credo che le musiche che ci sono arrivate dalla tradizione nera siano le fondamenta di quasi tutto ciò che amo, sono il punto di partenza della mia musica come di gran parte della musica che ascoltiamo. In questo senso credo che i lavori di artisti come gli Swan Silvertones, il Golden Gate Quartet e Dorothy Love Coates dovrebbero avere la stessa fama e lo stesso rispetto di quelli di Hank Williams e Bob Dylan».
Un’affermazione importante, da parte della quarantasettenne musicista del Maine: i dischi di Patty sino ad ora erano ricchi di country e di folk, dal primo “Living With Ghosts” (1996) al recente e bellissimo “Children Running Through” (2007) con alcune puntate in quei territori rock a metà strada tra ricerca e tradizione che piacciono a Dave Matthews (che infatti l’ha voluta nella sua etichetta: quattro dei dischi di Patty sono infatti usciti per la Ato) e Beck. Ora però arriva il grande omaggio alla musica delle radici ancestrali, delle fondamenta e pare proprio che Patty sia riuscita nel suo disco “definitivo”.
Molla dell’operazione è stato il suo discografico, il boss della Emi Tom York, che l’ha spinta a dar forma a un’idea che fino all’estate del 2009 pareva un sogno. Per rendere il sogno realtà, la Griffin ha posto una condizione: «Se il disco nasce, a produrlo ci deve essere Buddy Miller».
Chi è costui? Uno dei santoni del country: collaboratore di Robert Plant e Alison Kraus, Steve Earle e Johnny Fogerty (quello dei Creedence) è stato anche produttore di Emmilou Harris, Dolly Parton e Shawn Colvin.
La Griffin e Miller si incontrano a Nashville e su precisa richiesta della cantante, decidono di andare a registrare nella cattedrale Presbyteriana di Nashville. Da qui il nome del disco che suona suppergiù come la chiesa del centro.
Non sarà una novità la location (il disco in una cattedrale l’hanno inciso anche i canadesi Cowboy Junkie: era il 1988 e la chiesa era la Holy Trinity Church di Toronto), però è interessante sia la scelta delle canzoni, che gli ospiti chiamati a interpretarle, che l’atteggiamento della musicista.
Con Patty c’è infatti un nucleo scelto di amici: Emmylou Harris che canta in Little fire, le vocalist Regina e Ann McCrary (figlie del fondatore dei Fairfield four, una delle formazioni leggendarie del gospel nata a Nashville negli anni Venti) che rendono indimenticabili The strange man, Move up e Wade in the water.
E a sorpresa c’è Raul Malo, intensa chitarra e voce dei Mavericks, che accompagna Patty nell’interpretazione supenda di Virgen de Guadalupe, un’antica canzone che racconta l’addio da parte del campesino messicano che parte per cercare lavoro negli Stati Uniti e che dolcemente affida alla Virgen la sua anima: “Adios oh virgen/ Madre querida/ Adios rifugio del pecador/ Eres mi encanto/ Eres mi vida/ Dulce esperanza/ En mi dolor”. In altre canzoni la Griffin fa da sola, come quando riprende la sua Waiting for my child to come home (già cantata anche da Mavis Staples).
Disco di mille ispirazioni: vecchi gospel, canzoni country, inni battisti, ma sempre senza bigottismo; canzoni cantante da una cantante liberal con grande rispetto per quelle radici da cui tutto sembra provenire. Patty di sé ha detto: «Sono cresciuta in una famiglia cattolica. I miei genitori erano molto religiosi. Mio padre aveva addirittura fatto un’esperienza come monaco in un convento trappista. Io ora mi sento un po’ una figlia non ortodossa, una bastarda, ma tutto ciò che mi è stato insegnato è rimasto dentro di me e continua a mostrarsi e a suggerire tante cose».
Ad esempio suggerisce un finale emozionante: una versione di All creatures of our God and King (vale a dire il Cantico di frate Sole o delle Creature attribuito a San Francesco, così come trascritto e musicato nel 1919 da William Draper, prelato e musicista inglese) per sola voce e piano. La canzone si libera sotto le volte della cattedrale di Nashville, con un riverbero naturale e non artefatto. Forse questo è ciò che più colpisce: non è un disco finto. Merito forse delle volte di quella downtown church in cui tutto è nato ed è stato registrato.