Antonello Venditti di solito scrive canzoni e incide dischi. Questa volta, per fare un’eccezione, ha scritto un libro, “L’importante è che tu sia infelice” (Mondadori,150 pagine), con la scusa di raccontare sessant’anni di vita e qualcuno in meno di musica. Il risultato è sorprendente: tanti fatti della vita di uno degli autori più famosi dell’italica canzone, episodi che sono anche fatti della vita italiana, mille intrecci tra canzoni e avvenimenti, una caterva di nomi ed eventi piccoli e grandi.
Ma la sorpresa maggiore, ed è ciò che dà freschezza e affascina, è che il racconto annoda i fili ingarbugliati, divertenti e coraggiosi della nascita della canzone d’autore, tirando dentro Guccini e De Gregori, De André e Ivan Graziani, la Pfm e Claudio Baglioni.
Nel libro c’è di tutto, il liceo, il papà Vincenzino Italo (che davvero aveva un buco in gola, causa seconda guerra mondiale…), il Folkstudio, il primo disco con De Gregori, le tournèe di spalla al Perigeo, il primo successo, i dischi venduti a milioni, gli scudetti della Roma, i viaggi, i vizi, le ossessioni.
Le pagine grondano di tanta umanità: c’è il Venditti che entra in sintonia con i ragazzi del carcere minorile di Casal del Marmo, sfidandoli: «Io canto solo se qualcuno mi batte a biliardino». C’è l’Antonello che nel 2006 va in Sierra Leone e conosce il saveriano padre Bepi Berton, l’uomo che sta strappando i bambini e le bambine di quella terra a un futuro di violenza, armi e stupri di massa, e ripensa al senso del suo rapporto con Cristo come perdono.
C’è il cantautore romano che va al Meeting di Rimini a presentare “In questo mondo di ladri”, oppure che viene accusato sull’Unità di qualunquismo, lui che il 16 giugno ’83 è sul palco della festa del Pci con Veltroni e De Gregori, mentre Roberto Benigni prende in braccio Luigi Berlinguer.
C’è tanta storia recente, dicevo: l’autore di Roma capoccia non c’era a Bologna, nel 1997, quando Bob Dylan cantò davanti a Papa Woitjla, ma in ogni caso un commento non se lo risparmia: «Non fui d’accordo… e sono felice che Ratzinger abbia lanciato il messaggio che l’incontro con il Papa non è un concerto rock».
È un Venditti che dice di se, quel che emerge dal libro, che si svela senza ritegno, raccontando anche delle proprie debolezze o delle proprie percezioni “da sensitivo”, il tutto con un ritmo da scrittore incallito, oppure – se vogliamo – con un ritmo da dilettante che però ha tante cose da dire e sa che deve dirle tutte d’un fiato, senza il problema di un filo cronologico (i salti temporali sono all’ordine del giorno), ma solo con l’obiettivo di svuotare il sacco dell’esistenza, nel tentativo di fascinare chi legge.
La palma per l’episodio migliore del libro la vince l’incontro con sir George Martin, cioè l’uomo che ha costruito i Beatles. Nel 1979, durante il soggiorno americano per la realizzazione di "Buona domenica" Venditti (con un manipolo di musicisti, amici, discografici e moglie) frequenta il bel mondo, da Eric Clapton a Paul Newman e ha la fortuna di pranzare con Martin, uomo con il quale si può parlare di tutto tranne che del periodo con i baronetti di Liverpool. Bene, nonostante fosse “avvertita”, la moglie di Antonello, Simona Izzo, a un certo punto dà la svolta alla serata: «Bene: parliamo un po’ di Beatles»: fu il momento in cui una possibile collaborazione con il più grande produttore della storia del pop andò in fumo.
La palma, invece, del personaggio più citato va alla madre Wanda, presente più o meno ovunque, “colpevole” della frase che titola il libro, pronunciata in un misto di amore e delusione alla visione di una nuova casa del cantante. Il libro si apre con lei e si chiude con lei, mentre buona parte dell’ultimo capitolo è dedicato alla lunga malattia del padre.
Affetti familiari, tante amicizie, pochi amori, perché non è un libro di gossip, ma di storie. Con le canzoni a far da sottofondo, in modo discreto. Senza clamore. Una volta tanto, senza essere loro in primo piano.