Dovessi consigliare un disco a degli amici a cui tengo veramente – come mi succede ogni tanto – in questo periodo non avrei dubbi: “Farewell, my love”, degli R.G.Morrison. E lo dico con massimo rispetto per il nuovo di Neil Young e per il live acustico (notevole) di James Taylor e Carol King.

La band in questione (che prende il nome da Rubert Grame Morrison, capobanda e autore del tutto) si muove in completo territorio americana pur essendo inglese del Devon. Ricordando che per americana si definisce un ampio genere che si rifà alle lezioni roots del nordamerica, c’è da dire che questo disco è di equilibrio stilistico ed emotivo così ampio da soddisfare gusti vastissimi.



La copertina di “Farewell, my love” è in tema, anche se prevedibile (la band davanti a una fattoria, ambientazione old country che funziona sempre da Deja vu in poi), ma quel che conta è dentro i solchi, perché già da Love, labor, lost voci e chitarre ti spiazzano subito in un melange di semplicità acustica davvero perfetta.



Poi arrivano Virginia, Beckett e Small town e uno tentenna non sapendo bene se si tratti di un nuovo disco di Ryan Adams oppure no. Morrison e compagni interpretano un folk allo stato puro attraversato da alternative country, ma anche da un sound psichedelico che sbuca elettrico in Broken hands e soprattutto nella stupenda Songbird, che esplode veemente dalle spoglie di una ballata dolcissima.

A coronamento del tutto ecco un brano che respira degli arrangiamenti di Tom Waits, I won’t waltz, bislacco e fascinoso, decadente.

Tante le influenze, i richiami (l’attacco di Clea Duval paga qualche pegno a 4&20 di Stephen Stills), le immedesimazioni, da parte di chi ascolta l’album. C’è la purezza acustica delle cose di Jackson Browne e di Beck, ci sono le inflessioni vocali e gli inattesi arrangiamenti di Ryan Adams, ci sono le vocalità ingenue e indimenticabili di James Taylor, ci sono le strofe arrendevoli di Thom Yorke.



Ma il quintetto è britannico, e quindi è inevitabile che gli amori americani di Rupert si siano combinati con gli insegnamenti di Richard Thompson e della grande stagione folk d’Albione.

Nell’insieme è un prodotto di belle canzoni (nessuna sotto la sufficienza…), registrate con antica umiltà nel classico ritiro dal caos della vita contemporanea, con linee melodiche semplici ma azzeccate e nessuna sovrastruttura, tra violini e chitarre acustiche con quel tanto di elettrico che serve al discorso complessivo: è il secondo album per questi inglesi, ma sembra un prodotto di gente navigatissima. O forse proprio nella convinzione del loro progetto artistico ci sta la forza di questi “quasi-esordienti”.