Sarà stato nell’autunno del ’69 o del ’70, non ricordo bene. Di Bob Dylan conoscevo poco e nulla e non so neanche se già avevo comprato la mia prima, scassatissima, chitarra acustica (una orrenda Eko naturalmente, per noi senza una lira).

Sapevo come tutti Blowin’ in the wind, e per due anni avevo praticamente scavato, domenica dopo domenica, i due unici dischi rock che mia zia “giovane”, di professione pubblicitaria, aveva portato da Londra nel ‘67: “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles e uno strano EP di Dylan contenente Just like a woman e I want you, mi pare.



Poi Renzo Marotta, di due anni più vecchio di me (è l’amico scomparso che da sempre ho in comune con Gioele Dix), in quell’autunno milanese di fine decennio mi prestò “The freewheelin’ Bob Dylan”, un intero Lp del cantautore, anche quello frutto di suo un precedente viaggio londinese.

Erano altri tempi, in cui il mercato italiano poteva concedersi di stampare anche tre, quattro anni dopo un Lp straniero per un pubblico “local”, ma  gran compratore di dischi, che viveva ancora di Sanremo e Canzonissima, ma per il quale artisti come i Rolling Stones o Stevie Wonder registravano i propri singoli con cover in stentato italiano.
 



Lo suonai, quel grosso, pesante vinile della Columbia, sul mio vecchio Philips “fonovaligia”, naturalmente mono. Fu una staffilata, uno schiaffo, un’iniezione di totale alterità musicale e poetica. Cresciuto fra le finezze vocali di Mina e Frank Sinatra, i due grandi amori musicali di mia madre, e innamorato della diversità del beat italiano di Rokes ed Equipe 84 e della infinita creatività dei Beatles, rotolai su quel Dylan dalla voce sgraziata eppure imponente, su quell’armonica assordante e quella chitarra acustica aspra e diretta, plettrata con energia, con curiosità.



E fu un incontro inatteso, indimenticabile, un amore a prima vista. Furono giorni occupati solo dall’ascolto ripetuto all’infinito di quelle 13 canzoni, oltre 50’ di musica e versi in un inglese slangato di cui non afferravo assolutamente nulla, da ginnasiale francesista. Ma neanche mia madre, che in America aveva passato un pezzo della sua giovinezza, e mia zia, che praticava un inglese elegante imparato fra Londra la scuola Manzoni di Milano, afferravano alcunché.

Ma non serviva, non a me. Anche se tutti dicevano che Dylan valeva per il messaggio e non per quella sua legnosa – e lagnosa – musicalità, era proprio quella che a me stava terremotando la vita. Ci sentivo dentro il profumo intenso della libertà, del non formalismo, del desiderio di cose povere, sporche, spettinate (come i miei lunghi capelli) ma vere, che mi batteva dentro.

Ero pienamente alla moda, pienamente allineato al pensiero giovanile dominante: Dylan e Kerouac, “Sulla strada” e “Masters of war”. Ma avevo già capito, ascoltando quel disco, che dietro all’invettiva e alla protesta c’era l’altra faccia della Luna, quella degli amori perduti di Girl from the north country e Don’t think twice, it’s all right, cantati col più assoluto e struggente antisentimentalismo.

Io non avevo amori difficili, ma innamorato lo ero. Non avevo furori ideologici, ma curioso della politica lo ero. Dylan, scoprii poi poco a poco, a quel tempo con tutto questo aveva già chiuso. Aveva già scritto, alla fine del ’64, My back pages, l’inno del ripudio dell’ideologia; aveva già fatto fra il ’65 e il ’66 la sua rivoluzione rock surreale fra "Mr. Tambourine man", "Like a rolling stone" e "Just like a woman"; e con “John Wesley Harding”, nel ’67, era divenuto ormai saggio e pacato.

Ecco, la ristampa oggi di quei primi 8 dischi capolavoro di Bob Dylan in versione originale mono, senza trucchi, con l’esatta asprezza di come li ascoltammo la prima volta, riaccende la memoria e illumina di tenerezza il passato.

Avevamo dentro un desiderio confuso, ma potente, di grandezza e di verità, e c’era perfino una voce che lo cantava per noi. Ma stavamo per accorgerci che non sarebbe bastato, che il nostro cuore voleva di più, ancora di più. E anche questo ce lo aveva già annunciato la musica, quella promessa di bellezza che indica qualcos’altro da sé, quella cosa che non puoi toccare, né vedere, ma che ti dispone tutto intero a incontrare quello che il cuore aspetta. Magari cantando… sì, cantando e suonando.

The Witmark Demos Tracklisting

Disc 1:
Man On The Street (Fragment)
Hard Times In New York Town
Poor Boy Blues
Ballad For A Friend
Rambling, Gambling Willie
Talking Bear Mountain Picnic Massacre Blues
Standing On The Highway
Man On The Street
Blowin’ In The Wind
Long Ago, Far Away
A Hard Rain’s A-Gonna Fall
Tomorrow Is A Long Time
The Death of Emmett Till
Let Me Die In My Footsteps
Ballad Of Hollis Brown
Quit Your Low Down Ways
Baby, I’m In The Mood For You
Bound To Lose, Bound To Win
All Over You
I’d Hate To Be You On That Dreadful Day
Long Time Gone
Talkin’ John Birch Paranoid Blues
Masters Of War
Oxford Town
Farewell


Disc 2:

Don’t Think Twice, It’s All Right
Walkin’ Down The Line
I Shall Be Free
Bob Dylan’s Blues
Bob Dylan’s Dream
Boots Of Spanish Leather
Girl From The North Country
Seven Curses
Hero Blues
Whatcha Gonna Do?
Gypsy Lou
Ain’t Gonna Grieve
John Brown
Only A Hobo
When The Ship Comes In
The Times They Are A-Changin’
Paths Of Victory
Guess I’m Doing Fine
Baby Let Me Follow You Down
Mama, You Been On My Mind
Mr. Tambourine Man
I’ll Keep It With Mine

I dischi:

Bob Dylan (1962)
The Freewheelin’ Bob Dylan (1963)
The Times They Are A-Changin’ (1964)
Another Side Of Bob Dylan (1964)
Bringing It All Back Home (1965)
Highway 61 Revisited (1965)
Blonde on Blonde (1966)
John Wesley Harding (1967)