L’immagine è ben nota, almeno a tutti quelli di una certa età. I capelli lunghi, anzi lunghissimi, tra l’argento scintillante e l’azzurro dato dalla luce dei riflettori. La barba, il ghigno demoniaco e la canottiera. La voce graffiante, nasale, non una bella voce, ma una “voce”, di quelle che si imprimono nel cuore. La musica che aumenta sempre più il ritmo e lui che si alza in piedi dal pianoforte dove sedeva, e battendo le mani si lancia in una danza esaltata ed esaltante.



Sono le immagini di cui ci siamo nutriti ai tempi in cui i grandi della musica rock in Italia non ci venivano e quando ci venivano si beccavano una molotov tra i piedi, sul palco. Erano gli anni 70, e per chi amava la musica rock toccava andare al cinema per averne la giusta dose. Il signore di cui poc’anzi era Leon Russell, colto nella pellicola del memorabile “Concert for Bangladesh” organizzato nel 1971 dall’ex Beatle George Harrison.



Leon Russell in quel primo scorcio dei 70 fu straordinario interprete, compositore (la sua Delta Lady fu incisa anche dalla nostra Mina), ispiratore: guidò – per quei pochi anni che durò – la folle carovana del cosiddetto “country soul”, il soul dei bianchi del sud degli States.

Un intelligente e trascinante cocktail dei migliori umori musicali di quella parte d’America tra musica country e dosi stordenti di soul dei neri. Russell in quel periodo è la guida spirituale e artistica del Mad Dog and Englishmen Tour, quello che consacra il giovane e selvaggio Joe Cocker, e poi va con Delaney And Bonnie, duo moglie e marito che incantò grandi musicisti come Eric Clapton e George Harrison tanto che lasciarono la fredda Inghilterra per esibirsi con loro.



Un momento musicale esaltante, ma Russell era un nome noto agli intenditori già dagli anni 60, quando come session man lavorava per Phil Spector. Addirittura, è lui che suona nel primo singolo dei Byrds, Mr. Tambourine Man, perché loro erano troppo impacciati per farlo.

 

Più di trent’anni dopo, l’incontro, magico e meraviglioso, accade di nuovo. E scocca la scintilla della grande musica. Oggi di Leon Russell non si ricorda quasi più nessuno, è stato anche gravemente malato, il music biz lo ha lasciato indietro. Di Elton John invece ancora tutti, o quasi, si ricordano. Ed è proprio Sir Reginald, da sempre innamorato della musica dell’America più profonda e genuina (non pensate all’Elton John ridicolo e cocainomane degli anni 80 e 90, per favore; cercate di pensare a quello straordinario autore di canzoni formidabili che fu nei primi anni 70) che è andato a riscoprirlo e lo ha invitato a incidere un disco di purissimo country soul.

Si chiama “The Union”, l’unione, ed è un tuffo nel passato ma con la freschezza di chi ha ancora il cuore spalancato alle gioie della musica. Elton John, dicevamo: quello di dischi come “Tumbleweed Conenction”, “Madman Across the Water”, “Honky Chateau”, “Caribou”, tutti incisi in una manciata di pochissimi anni, tra il 1970 e il 1974. Opere dove la genialità di Elton John pescava nella musica dixie di New Orleans, nel folk, nel rock’n’roll primigenio, nel soul, nel gospel. E con “The Union” tutto questo torna mirabilmente alla superficie.

Accompagnati da un sontuoso coro gospel, da ospiti eccellenti come Neil Young e Brian Wilson, i due lasciano fluire una capacità di creare grandi canzoni ancora incredibilmente intatta. Non c’è più la giovanile esuberanza naturalmente (anche se la coda strumentale della trascinante Moneky Suit farebbe l’invidia a tanti giovinetti della musica d’oggi): entrambi over 60, offrono una serena meditazione su quello che la vita ha offerto e ancora ha da offrire. Fondamentale l’aiuto di un produttore eccezionale come T Bone Burnett, recentemente anche con Robert Plant. Su tutte la malinconica ballatona Gone to Shiloh, quella dove appare Neil Young.

 

 

 

Una malinconia bellissima, autunnale, persa nello scorrere del tempo, per rievocare la pagina di una storica battaglia della guerra di Secessione. Altri ospiti che appaiono nel disco sono lo straordinario suonatore di “sacred pedal steel”, la pedal steel che si suona in chiesa, il nero Robert Randolph e nientemeno che il re del pop, mr Brian Wilson, il genio dietro ai Beach Boys. Ma anche l’eclettico chitarrista Marc Ribot,il tastierista Booker T e il batterista Jim Keltner.

Quello che fuoriesce è musica dalle mille sfumature, profondamente americana, soprattutto negli accenti gospel, ma mediata dalla attitudine pop di Elton John. Lui e Leon Russell si scambiano le parti, duettano sui tasti dei pianoforti e alle voci, creano canzoni solide come una quercia del vecchio Sud. In Eight Hundred Dollar Shoes Elton John si permette anche il lusso di citare “The winter of my discountent”, l’ultima novella di John Steinbeck – che a sua volta citava Shakespeare, peraltro – a dimostrazione di come questo disco sia un tributo a un’America che non c’è più. La stessa Gone to Shiloh, per musicalità e ambientazione lirica, ricorda i capolavori che incise un tempo The Band, il gruppo spalla di Bob Dylan, che cantavano appunto dell’America sbandata del dopo guerra civile.

Un disco che si apre con la bella If It Wasn’t For Bad, di Russell, e prosegue tra sonorità un po’ bluesy, un po’ da crooner (la bellissima When Love Is Dying che riaccende le luci di una New York al neon di fine degli anni 40). Ci sono gli incalzanti rock’n’roll che grondano sentimento New Orleans (Monkey Suit), funk trascinanti come Hey Ahab, divertenti incursioni nell’honky tonk, e finanche il tributo alla leggenda della country music in Jimmie Rodger’s Dream.

E tanto altro come la commovente The Best Part of the Day, idealmente dedicata allo socmparso pianista di The Band, Richard Manuel. Fino al finale – da paura – di The Hands of Angels: solo Leon Russell, la sua voce, il suo pianoforte e un coro gospel che sembra essere quello dei santi dell’ultimo giorno e davvero le mani degli angeli sembra di toccarle. E si capisce allora il senso di parole come quelle che ha detto lo stesso Leon Russell a Elton John dopo avergli permesso di incidere insieme questo disco: “Grazie per avermi salvato la vita”.