Non dev’essere roba da poco, passare dall’anonimità delle road house, quei localacci lungo le highway tra Mississppi e Texas, alla ribalta di Hollywood. Ancora di più, se fino a pochi anni fa hai fatto il mandriano e il cowboy ai rodeo, in uno di questi cadendo così malamente da spaccarti tutti o quasi i denti. Adesso invece sei sotto le luci della ribalta, davanti alle telecamere di mezzo mondo e ai flash di dozzine di fotografi. Sì, perché stai per ritirare l’Oscar per la miglior canzone da film dell’anno.
E’ la bella storia di Ryan Bingham, una tipica storia tutta americana, quella storia che dice più o meno che in America, chiunque ce la può fare. Ma per Ryan Bingham (a proposito, la canzone vincitrice dell’Oscar 2010 è The Weary Kind, che appare nel film “Crazy Heart” con protagonista Jeff Bridges, ed è compresa anche in questo suo nuovo cd) tutto ciò, Oscar compreso, conta relativamente.
Lo dimostra il suo nuovo cd, “Junkie Star”. Il ragazzo del Texas rimane fedele a se stesso, la vittoria a Hollywood non ha cambiato nulla del suo approccio sincero e sofferto alla musica. Che anzi, in questo suo terzo album perde certi connotati sfrontatamente rock che caratterizzavano i due precedenti episodi e vira verso una canzone d’autore sempre più malinconica e intimista.
La produzione del geniale T Bone Burnett (insieme a Rick Rubin, oggi il miglior produttore d’America) fa il resto, confezionando un suono che sa sì di “americana”, ma ricco di sfumature. Notturne, naturalmente, E’ un disco ricco di ballate dalle aperture dylaniane, scritte e cantante come trovarsi sotto la luna davanti al Rio Grande. Una meditazione profonda, quella che fa Bingham in pezzi di altissimo cantautorato come l’iniziale The Poet (un titolo che è un programma).
La title track, poi, altra splendida ballata, conferma, seppur in altra locazione geografica, le nostre impressioni: “Sleeping on the Santa Monica Pier, with the junkies and the stars”, “addormentato sul molo di Santa Monica, tra drogati e le stelle”. Voce straordinariamente intensa, per un ragazzo di trent’anni scarsi, ma che lasci fuoriuscire tutta la dura strada fatta per arrivare fino a qui: figlio di genitori entrambi tossicodipendenti, buon lascito di una Woodstock generation fallimentare da ogni punto di vista, cresciuto senza un padre né una madre, Ryan Bingham è oggi l’erede dei grandi songwriter texani degli anni 70, quel manipolo di eroi (Guy Clark, Townes Van Zandt fra gli altri) che riscrissero le regole stesse del songwriting nordamericano.
E titoli impegnativi come Hallelujah o Depression sono il ritratto di Ryan Bingham ma anche di un’America che, la faccia sorridente di Obama a parte, fatica a ritrovare un senso e una strada sicura.
Dall’altra parte dell’Oceano, dalla vecchia e piovosa Inghilterra, risponde David Gray, cantautore con più di un punto in comune con Bingham. La differenza è che Gray è sulle scene da più di dieci anni e ha già raggiunto il successo commerciale, con il disco del 1998, lo splendido “White Ladder”. Il primo riferimento che li accomuna è la straordinarietà della interpretazione vocale: David Gray è una delle voci più belle e appassionanti uscite sulla scena del cantautorato contemporaneo, se non la più bella.
Come Bingham fa riferimento alla grande tradizione autorale nordamericana, Gray fa lo stesso con quella inglese. La differenza sta nel fatto che se “Junkie Star” è per Bingham la prova della maturità, “Foundling" (un titolo significativo, "trovatello", come un figlio di nessuno a cui comunque si vuole troppo bene epr lascialro andare via), il nuovo doppio cd di Gray, è forse un momento di smarrimento. Non che il disco sia brutto: la classe di Gray è troppa per smarrirsi di colpo, ma la sensazione è quella di un disco di transizione, dove mancano le certezze e i punti di riferimento. Spesso le canzoni sembrano dei provini appena accennati, in attesa di tornarci su per finirle. I
nvece lui le ha pubblicate così, coraggiosa istantanea di un momento di inquietudine e di ricerca. Lui stesso ne è consapevole: “Questo disco è destinato a sparire dalla faccia della terra”, ha detto, opinione secondo noi alquanto esagerata. C’è ben altro oggi nella scena musicale che merita di sparire dalla faccia della terra ben più di questo suo cd.
Ma non mancano le grandi canzoni, come l’iniziale Only the Wine, o la metropolitana e notturna We Could Fall in Love Again Tonight. Il cd è addirittura doppio: Gray ha voluto pubblicare canzoni che dovevano uscire per un altro progetto, segno di un desiderio di testimoniare comunque il suo momento di vita artistica, nel bene e nel male.
La differenza come sound non è molta: entrambi i dischi si appoggiano sulle chitarre acustiche e sul pianoforte. Ma anche qui la differenza la fa la profondità dell’interpretazione vocale di Gray. Da brividi, in momenti come Who’s Singing Now. Voci dell’anima, profonda e onesta, quelle di Ryan Bingham e David Gray.