Prendi una rock star (Ben Harper), una cult star (Joseph Arthur) e poi anche il figlio di una delle quattro star più popolari del Novecento (Dhani, figlio di George Harrison). Quello che ottieni è un super gruppo, come si diceva una volta (ricordate Crosby, Stills, Nash & Young, oppure Emerson, Lake & Palmer?).
Solo che questi non sono esattamente paragonabili a quelli degli anni Settanta, e soprattutto volano basso. Umiltà che, si presume, arrivi soprattutto dal figlio di George Harrison (Dhani; una somiglianza fisica e vocale impressionante che una volta fece dire al compagno del defunto padre, Paul McCartney: «Mentre io invecchio sempre di più, George rimane sempre giovane!»), che dal padre ha ereditato quella filosofia zen propria dell’anti star.
Ma tutti e tre ci mettono la dose giusta di semplicità, si nascondono dietro un bel nome, i Fistful of Mercy (che si potrebbe tradurre un po’ come “per un pugno di pietà”, visto che il film di Sergio Leone “Per un pugno di dollari” in inglese venne intitolato “A Fistful of Dollars”) e buttano fuori un dischetto tutt’altro che pretenzioso, fatto di umori neo hippie, chitarre acustiche e belle armonie vocali. Certo, se si ascolta un pezzo come In Vain or True senza guardarli in faccia, ci si potrà aspettare di trovarsi davanti a un inedito del compianto George Harrison
Ma è un episodio, e poi che male c’è. Più che un disco fatto e finito questo è un disco di divertimento puro e rilassato, finanche un tributo ai grandi classici del passato e perciò i Beatles non possono mancare nella memoria collettiva di ogni artista contemporaneo. Sono tre amici, questi, che si ritrovano sul portico della loro casetta a scambiarsi chitarre e canzoni. Ben Harper lo conoscono tutti, uno dei musicisti più amati degli ultimi dieci anni, chitarrista straordinario, capace di fare l’emulo di Jimi Hendrix quanto l’introverso cantautore solitario.
È californiano, bello e di colore, passa il tempo fra il negozio di strumenti vintage dei nonni e le onde delle Hawaii a fare surf, quando naturalmente non è in concerto o in studio a registrare dischi. Joseph Arthur viene invece da un mondo lontanissimo, il piccolo e provinciale Ohio, per approdare a New York dove diventa il beniamino di Peter Gabriel che gli produce l’esordio. Cantautore metropolitano e sperimentale, dal taglio introverso e claustrofobico, Arthur qui dà un’altra immagine di sé, a proprio agio con questa sorta di celebrazione hippie.
Dhani invece. Beh, Dhani di cognome fa Harrison e tanto basta (questo peraltro non è il suo debutto ufficiale come musicista, ne pubblicò già uno alcuni anni fa passato inosservato). Ma attenzione: hippismo sì, ma canzoni solide, niente immaginario “peace and love” che ha fatto – per fortuna – il suo tempo. I nostri tre amici sono gente realista che meditano sulla quotidianità, i rapporti padri e figli – ovviamente -, la difficoltà delle relazioni affettive. E lo fanno con il sufficiente carico di emozioni per apparire credibili. “As I Call You Down”, si intitola il cd, una manciata di brani che passano dal country blues dai sapori gospel con la bella slide di Harper in evidenza della vigorosa e bellissima Father’s Son, alla ballata folk che ha lo stesso titolo del disco, un pezzo dove l’intensità e la capacità di creare armonie piene di nostalgia e di sentimento si taglia a fette, tanto i tre riescono a trasmettere capacità espressive sicuramente al di sopra della norma.
In mezzo ci mettono pure uno strumentale dai sapori vintage, 30 Bones, registrato come se fossimo tra New Orleans e Baton Rouge all’inizio del secolo (scorso). A sostenere il tutto musicalmente, uno dei più grandi batteristi di tutti i tempi, quel Jim Keltner che suonò un po’ con tutti, da John Lennon allo stesso George Harrison, e un sagace violinista. Un bel disco, perfetto per l’inverno che ormai è già arrivato a reclamare la sua dose di tristezze e melanconia.