LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA – PER ORA NOI LA CHIAMEREMO FELICITA’: Necessario: è la prima parola che mi viene in mente ascoltando questo lavoro. Necessario, in un panorama musicale fatto di artisti imbolsiti che riciclano se stessi; di cantanti vetusti che smerciano l’ennesimo Greatest Hits, dove gli sparuti inediti altro non sono che cover di qualche vecchio pezzo dello stesso repertorio. Necessario, in una scena nazionale che pare dar asilo solo alle meteore dei talent show. Per fortuna la musica in Italia non è solo questo.

Lo dimostra la consolidata attenzione di critica e pubblico verso Vasco Brondi (alias “Le Luci della centrale Elettrica”, Premio Tenco nel 2008). Merito anche dell’etichetta indipendente più lungimirante degli ultimi anni: La Tempesta Dischi, che fa capo al gruppo Tre Allegri Ragazzi Morti e le cui uscite ci hanno sempre regalato graditi esempi di musica italiana pensante (Il Teatro degli Orrori, Zen Circus, Il Pan del Diavolo, gli stessi T.A.R.M.).

Questo secondo album del musicista ferrarese dimostra che bastano i contenuti e non i battage pubblicitari, le idee e non le major, per essere artisti rimanendo se stessi e arrivando ugualmente al pubblico. Anche un pubblico molto giovane, a risaltare che i ragazzi e le ragazze italiane non sono solo quelli che si rimbambiscono con gruppetti melensi, senza alcuna credibilità live e dai motivetti stucchevoli: no, i giovani apprezzano anche i contenuti profondi e qui ce n’è a iosa.

Parte l’album con Cara Catastrofe e sembra d’aver lasciato nel lettore il precedente cd del 2008, Canzoni da spiaggia deturpata: la continuità stilistica è impressionante, ma è forse un torto? Si può rimproverare a un venticinquenne d’aver già trovato una sua poetica, una sua cifra peculiare, invece d’arrancare pateticamente fra stilemi derivativi triti e ritriti? E che attraverso di essa voglia continuare a esprimersi? La seguente Quando tornerai dall’estero è la canzone perfetta da far sentire a chi risponderebbe di sì: la voce s’attenua, le chitarre acustiche ed elettriche s’inseguono sommessamente, mentre un organo delicato fa la sua comparsa prima di venir sommerso da un’esplosione emotiva e testuale che è più meditata, completa e sicuramente inedita rispetto a quanto proposto finora dal nostro. 

Altre differenze con l’album precedente sono i musicisti coinvolti: Stefano Pilia (Massimo Volume); Enrico Gabrielli (Calibro 35); Rodrigo D’Erasmo (Afterhours, Cesare Basile) e le valenti comparsate di Vinicio Capossela e Mike Patton. Il “solito” Giorgio Canali (CSI, PGR) – coadiuvato da Paolo Mauri al mixing – ha supervisionato il tutto. Rispetto al primo, in questo secondo lavoro suonano archi, chitarre distorte, organi col delay, megafoni e sempre più granitiche chitarre acustiche.

Una Guerra Fredda continua sullo stesso solco e le sue immagini, i suoi flashback lirici, ci conducono attraverso alcune polaroid del Paese in questi anni di crisi: immigrati, clochard, la provincia asfissiante eppur confortevole, come un maglione sdrucito che trasmette fiducia. Un violino chiude impetuoso il brano.

L’impasto chitarristico di Fuochi Artificiali ha lo stesso colore nero come la pece evocato dalle parole, generando un effetto al contempo di straniamento e immedesimazione.
L’Amore ai Tempi dei Metalmeccanici si regge su un tappeto di arpeggi acustici, misurati interventi d’organo e chitarra slide, speziato contrappunto alle immagini sovrapposte con cui Vasco Brondi continua a spostare l’attenzione sempre più sul “significante” che sul “significato” delle parole, un modo altamente evocativo di dipingere per mezzo di frasi, di trascinare in un saliscendi emotivo che è il tratto distintivo del lirismo de Le Luci della Centrale Elettrica.

La forza dirompente dei testi di Vasco è fatta d’urgenza comunicativa, di uno stile stream of consciousness/flusso di coscienza tanto caro all’americana Beat Generation, ma più vicino agli effetti di un Ferlinghetti o di un Corso, piuttosto che di un Kerouac: invece di far capitombolare l’ascoltatore tra valanghe d’immagini evocative, Vasco evoca usando incontri/scontri d’aggettivi e parole messi lì spontaneamente ed emotivamente, e si sente.


Anidride Carbonica
è pura cronaca d’attualità fatta poesia, citando un verso del Ferretti dei CSI accanto al nome di Pasolini, fino a far diventare la canzone imprevedibile come uno dei tanti e mirabili movimenti di camera del compianto regista. Forte di un contrappunto musicale altrettanto cinematografico, il brano deflagra in un finale catartico quanto le frasi urlate che ne vengono inghiottite.

Ma è rock? È folk? È melodramma? È evocazione cinematografica? Narrativa? Pittorica? Fumettistica? Un po’ di tutto. Di sicuro, si tratta di “viscere sul tavolo”, citando l’immenso Andrea Pazienza, sempre presente nell’immaginario artistico di Vasco Brondi.

Il contrasto tra l’evanescente finale musicale de Le Petroliere e le ultime parole sussurrate dal Brondi sono un altro momento alto del cd.

I Nostri Corpi Celesti è musicalmente la più brillante: elettriche che introducono, acustiche che si lanciano a braccetto e violini che sottolineano le storie “umane troppo umane” gridate dal cuore nero de Le Luci della Centrale Elettrica.

Un merito ce l’ha sicuramente il giovane ferrarese: d’averci restituito – per mezzo delle figure palpitanti e mai dome che albergano nelle sue canzoni – la reale agenda sociale d’Italia: i lavori neri; i licenziamenti; il precariato; le morti bianche; i rom; i pendolari; i sindacati; l’hinterland, la crisi…

 “Tu non preoccuparti” canta in chiusura: come sostiene lui stesso nel libro "Cosa Racconteremo…", le sue sono in fondo canzoni di speranza, anche se gli vengono fuori “lacrimogene”! Sono racchiuse dentro una scorza dura e aspra, mai accondiscendente, ma è questa la caratteristica di tutte le cose difficili, belle, vere.

(Giuseppe Ciotta)