Finalmente una Storia della Musica da godersi come un sorbetto d’estate. Insolita, spiazzante, provocatoria. Frescura sempre, a tratti spruzzi gelati. Un gigantesco luminoso aforisma. Cumuli di sospetti eretti come fossero sistemi. Un discorso balbettante, ma pronunciato con voce sovrana. S’intitola “Il suono rivelato”, (Zecchini editore), la scrive il riminese Alessandro Zignani, sceneggiatore, drammaturgo, musicologo, germanista, nei giorni festivi direttore d’orchestra (da noi non l’hanno preso sul serio, allora soddisfa lo sfizio in Olanda).



Stirpe romagnola, ironica parlantina, intelligenza ruspante, lo avvicinano a Giovannino Guareschi. Gli argomenti ritornano più volte nel corso del libro, come soggetti di una Fuga. Gli enigmi non sono spiegati, ma circoscritti. Sintesi audaci, vorticanti brandelli di verità. Frammenti che diventano poesia perché ci obbligano a completarne le curve mutile.

È notte, ma a furia di lampi sembra giorno. Qualche baraccamento di troppo. Piccole bergonzoneidi. Audaci sillogismi. Tratti di puro avanspettacolo. Sintesi spericolate emozionanti come montagne russe (per chi ama il genere). Alessandro, scherza coi fanti ma lascia stare i santi: la Sindone non è un falso e tu lo sai, non devi compiacere i nipotini di Mann.

All’arte dei suoni si accede per tre portali, ipotizza Zignani: l’autore (con una dialettica interno/esterno, distinguendo fra esperienze e sogni, sguardi sull’aldilà e raffigurazioni dell’al di qua); il testo (inteso come partitura, ma pure mappa dell’anima, strategia della mente, viaggio nell’ignoto); il pubblico (punto di confluenza di reazioni collettive, coagulo di storie, sedimentazione d’idee).

Alcune tessere di mosaico. Quando Mozart parla di sé siamo nel campo della fisiologia, non della filosofia. Attenzione a Beethoven, inguaribile speculatore, moderno broker: vende la grafia, non le note (piazza la Nona a tre editori diversi, all’insaputa uno dell’altro; offre la Missa solemnis a Re, nobili e ambasciatori, dietro lauto assegno; ancora si rigira nella tomba per avere triplicato l’Ouverture Leonora).

Schubert, mezzo bidello (del Romanticismo, perché ne veglia la soglia) e mezzo demone (ipnotizzato dal Nulla). La musica di Chopin: l’istante che precede “l’apparir del Vero”, una gigantesca improvvisazione congelata. Il compositore vi sembra innocente e puro d’animo?

Occhio: i buoni sentimenti stanno al genio come la bandiera liberiana di certi panfili sta alla dichiarazione dei redditi dei loro proprietari. Anzi, “l’amore per l’umanità comporta un odio per i singoli individui”.

In che consiste il bachiano “Soli Deo Gloria”? “Noi stonavamo come asini, e lui ci riempiva di sberle”. Parola di ex corista. La vera ingenuità dell’eterno bamboccione chiamato Anton Bruckner? Quando al parco di Vienna vedeva una diciassettenne che gli piaceva, subito si affiancava alla mamma che la teneva per mano. Le signore gli facevano notare che erano già sposate; poi capivano l’equivoco e diventavano furiose.

Ipotesi sul riflusso neoclassico di Strawinsky, dopo l’esplosiva Sagra della Primavera: il giovane Igor che si chiede “La Prima Guerra Mondiale, non sarà mica stata un po’ anche colpa mia?”.

E poi Strauss e i suoi bei temoni grossi come pietre. Cajkovskij, compositore così volubile da inceppare perfino Google. Liszt che inventa il Poema sinfonico senza sapere in che guaio si sta cacciando. Schumann, dalle proteiformi parvenze ghignanti. I dolori del giovane Mahler. Gli scatoloni dei musicologi (Barocco, Classicismo, Espressionismo, eccetera), che sembra di stare nel retrobottega di una farmacia.

La musica contemporanea “mi butta giù” (Franco Battiato). Di paradosso in paradosso si giunge al nocciolo segreto. Qualche baraccamento di troppo, però si sorride, ci s’interroga, vien voglia di ricominciare tutto da capo, ascolti, letture, riflessioni. Un salutare generale ripensamento.