A inizio degli anni Novanta Johnny Cash, una delle grandi voci dell’America musicale del Novecento, al pari di Elvis e di Frank Sinatra, si trovava relegato in un limbo: rifiutato dalle grandi case discografiche perché non più “commerciale”, cioè invendibile per i gusti ormai annacquati degli acquirenti di country music di cui era stato il massimo rappresentante. È allora che avviene uno di quegli incontri sulla carta impossibili: Rick Rubin, guru e produttore di successo della scena hip-hop e metal decide di offrirgli una chance.
Gli fa incidere per la sua etichetta, la American Recordings, un disco per sola voce e chitarra, che Cash confesserà di aver sognato di fare per tutta la vita,ma che non gli era mai stato concesso. È l’inizio di un’avventura straordinaria e della rinascita del vecchio Uomo in Nero: rifiutato ogni stereotipo, Cash è libero di registrare qualunque tipo di canzone, dai brani della tradizione popolare americana a quelli dei nuovi eroi musicali della scena rock, gente agli antipodi da lui come Beck o Nine Inch Nails, ma anche U2 e tanti altri.
Quello che rende tutto incredibile è la straordinaria capacità di interprete di Cash, una voce paragonata a quella di un antico profeta della Bibbia: scura, profonda, ultraterrena, apocalittica. Johnny Cash muore nel 2003 in seguito a diversi problemi di salute, poco dopo la scomparsa dell’amata moglie June Carter. In vita, fa tempo a pubblicare quattro dischi con “Rick Rubin”, per la serie intitolata appunto American Recordings.
Adesso esce il secondo cd postumo, “American VI”, che raccoglie le ultime incisioni fatte prima della morte. La voce stentorea, il passo doloroso e intimo, Cash sembra non abbia voluto fare altro in attesa della morte: cantare. Se questo “American VI” non è straordinario come le precedenti pubblicazioni è solo perché alcuni dei brani qui presentati non sempre sono all’altezza del suo interprete. Ma in alcuni episodi la magia riesce, eccome. È il caso della messa in musica di un breve passo delle lettere di San Paolo, dalla prima ai Corinzi, (I Corinthians: 15: 55, è il titolo del brano).
Non stupisca questo: Cash era uomo dalla religiosità profondissima e in vita aveva addirittura scritto un libro, mai pubblicato in Italia, su San Paolo, personaggio in cui il musicista si identificava. Cash infatti si era “redento”, a fine anni Sessanta grazie alla moglie June, dopo una esistenza passata in corsia di sorpasso, fra eccessi di ogni tipo e consumo di sostanze stupefacenti che lo avevano portato anche in galera. In San Paolo, Cash vede se stesso, e la possibilità di redenzione per ogni uomo. Ormai consapevole della fine prossima, l’anziano cantante testimonia la sua fede: O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo dardo?» aggiungendo di suo «Oh vita, sei un sentiero splendente e la speranza fiorisce eterna quando vedo il mio redentore».
Racconta Rick Rubin che dopo la morte della moglie, Cash era veramente prostrato dal dolore. Allora il produttore gli chiese: «Credi di poter ancora avere fede in qualcosa?». La risposta di Cash fu decisa, la sua voce tornata improvvisamente forte e fiera: «La mia fede è incrollabile». Dice Rubin che «Cash aveva una fede tremenda, non ebbe mai paura e fu sempre in conflitto con il dolore: penso che da tempo aveva accettato tutto ciò. Quando seppe che stava per morire, era calmo e consapevole di ciò».
Ci sono altri momenti altrettanto toccanti: L’iniziale Ain’t No Grave, in cui Cash tratta il tema della resurrezione («Non c’è sepolcro che possa tenermi, che possa tenere il mio corpo, quando sentirò il suono della tromba mi alzerò dalla terra») a tempo di gospel nero, e il classico della musica americana Satisfied Mind. Nel resto del disco Cash passa in rassegna ancora una volta autori moderni da lui amati, da Sheryl Crow all’amico Kris Kristofferson. Il tutto prodotto come sempre splendidamente da Rick Rubin, con l’accompagnamento di alcuni dei migliori musicisti della scena, Benmont Tench, Smokey Hormel e la presenza straordinaria del duo degli Avett Brothers, talenti emergenti della scena neo folk, nell’iniziale Ain’t No Grave.