Era già successo una volta, circa quarant’anni fa. A fine anni 60, quando le strade si riempivano di manifestanti all’inseguimento dell’utopia del maggio francese e da Berkeley a Roma si inneggiava alla rivoluzione, anche i dischi inseguivano la fantasia al potere. Era l’epoca dei colori, dei lunghi capelli, delle droghe psichedeliche: da Sgt. Pepper’s dei Beatles alle devastazioni chitarristiche di Jimi Hendrix, passando per la chiamata alla rivolta dei Rolling Stones, tutto il mondo sembrava credere al sol dell’avvenire. Anche quello del rock.
In mezzo a tutto questo, all’inizio voci nel deserto, poi capaci di farsi ascoltare da molti, qualcuno andava indietro nel tempo, alle radici di un’America costruita sulla Bibbia e sulla profezia dei Padri Pellegrini. Furono dapprima Bob Dylan e The Band, con dischi appunto biblici come John Wesley Harding, poi furono in tanti, dai Byrds agli Eagles a Gram Parsons. Così facendo, indicarono una strada, salvarono se stessi e salvarono la storia del rock. Quarant’anni dopo sta succedendo lo stesso.
Oggi non c’è più la rivoluzione a dominare le scene, c’è il nichilismo e la disperazione dei figli e dei nipotini di quella rivoluzione fallita. E allora, dall’America alla vecchia Europa, l’ultima generazione va cercando esattamente come allora l’unica risposta possibile nelle radici, nei valori antichi, nella musica di generazioni passate ma che evidentemente hanno lasciato una eredità da cui è impossibile sfuggire. Si vestono come i Padri Pellegrini, lunghi capelli e lunghe barbe, un po’ come dei predicatori del vecchio West e sembrano dei profeti che tornano dai boschi e dalle montagne ad avvertire il mondo moderno dei suoi troppi peccati e di una possibile imminente fine.
Per loro probabilmente Internet, gli I-phone, gli i-Pod e adesso anche gli i-Pad sono parole sconosciute. Di alcuni di essi abbiamo già parlato su Il Sussidiario, gente come lo svedese The Tallest Man on Earth, gli americani Fleet Foxes o Great Lake Swimmers. Adesso presentiamo tre dischi in uscita in questo mese di aprile, quelli di Jakob Dylan, figlio di cotanto padre, degli Avett Brothers e dei texani Midlake. Con un unico comun denominatore: la tradizione nel sangue.
, Sony Music. Buon sangue non mente, ovviamente. Dopo aver viaggiato per un decennio sulle strade di un buon pop-rock da classifica, il figlio dell’autore di Mr. Tambourine Man e Like a Rolling Stone, 40 anni quest’anno, ritrova le sue radici. Già il disco di due anni fa, “Seeing Thngs”, prodotto dal quel gran genio di Rick Rubin, interamente acustico, lo aveva presentato nelle nuove vesti di folksinger. Adesso con un disco che Jakob dice essere intitolato alle uniche due cose che nella vita ci appassionano fino in fondo, le donne e il proprio paese, nel senso che amore per i destini della nazione in cui siamo nati e rapporto affettivo sono ciò che ci definiscono, va ancora più a fondo, tornando là da dove suo padre era partito cinquant’anni fa.
Prodotto questa volta da T-Bone Burnett, già con Bob Dylan negli anni 70 e autore della pluripremiata colonna sonora del film “O Brother where arth Thou”, Jakob Dylan confeziona un disco ambizioso, che spazia dalle atmosfere dolenti di New Orleans come se ne celebrasse la morte e il tentativo di rinascita, a un folk gotico pieno di oscuri presagi e arricchito di musicisti straordinari, come il chitarrista Marc Ribot.
Canzoni forti e misteriose che evocano paesaggi sinistri come se uscissero dalle pagine de “La strada” di Cormack McCarty. L’America di oggi, nel bene e nel male. Jakob Dylan la celebra con un disco forte e maturo, degno del proprio padre. .
, Sony Music – Si vestono come se uscissero da un film western di Clint Eastwood, sembrano profeti di un mondo che ha perso la bussola. Come The Band prima di loro, giocano sull’interscambio di più voci, nella strumentazione sono ancora più parchi perché si affidano esclusivamente a chitarre acustiche, banjo, pianoforte, un violoncello e una sezione ritmica non sempre presente in ogni brano. Ma le loro canzoni suonano più forte di una rock band: chiedono conto ai loro padri della desolazione e della solitudine in cui sono stati cresciuti, ma hanno anche voglia di divertirsi, proprio come essere a una festa di paese nel vecchio West. Lo fanno con un tasso melodico potentissimo, evocatore, trascinante.
A volte sembra di ascoltare il gioioso vaudeville dei Beatles perché glI Avett Brothers sono oggi il più riuscito connubio tra tradizione e grande musica pop. La canzone che dà il titolo all’album è già un classico della musica rock di ogni tempo, una ballata come non se ne sentivano da decenni. Dai tempi di The Band, appunto.
, Bella Union – I più mistici di tutti. Già sulla copertina del disco si vestono come antichi monaci medievali. Citano nelle loro canzoni Goethe e nelle loro interviste Andrei Tarkovsky, compongono melodie impossibili che sembrano unire canto gregoriano e Beach Boys. Eppure provengono dallo stato dei cowboy per eccellenza, il Texas. Ma potrebbero uscire da un convento medievale che sarebbe lo stesso.
Canzoni dallo struggimento immenso, con un senso della melodia anche qui assai presente, un accompagnamento fatto di chitarre acustiche, organo, violino e flauto, quasi fossero un gruppo di folk inglese della scena anni Settanta.
Il segno che le barriere, temporali e stilistiche, davvero in questo Terzo millennio non esistono più. Sorta di sinfonia tra il pop e la classica, The Courage of Others è uno dei dischi più misteriosi degli ultimi dieci anni e che ben si accoppia con il loro lavoro precedente, altrettanto straordinario," The Trials of Van Occupanther".