Si aggira nel cortile interno dell’albergo milanese come un punk rocker in veste indie folk, imbracciando la chitarra acustica e intonando, nell’intervallo fra un’intervista e l’altra alcuni brani del suo debutto omonimo.
Harper Simon, figlio di Paul Simon, ha forse ereditato dal padre un’aria sottilmente assente e quel gusto di creare musica che fa del songwriting la via di accesso diretta verso la melodia intesa come valore immortale, complice, anche nel caso di Harper, un registro di voce delicato e rassicurante. Arriva ora, a 37 anni, il debutto solista, in un cd di circa 30 minuti che coniuga chamber pop, southern rock, country e indie folk, sobriamente prodotto a Nashville senza apparente troppo clamore, si compie in realtà un piccolo miracolo che difficilmente verrà ripetuto.
Dietro alla produzione, in diversi pezzi, di Bob Johnston (un nome leggendario nel rock, produttore fra gli altri di album storici di Bob Dylan come “Highway 61 Revisited” e “Blonde On Blonde”, di “At Folsom Prison” di Johnny Cash e di album altrettanto importanti di Leonard Cohen e Simon and Garfunkel) suonano per Harper musicisti che dagli anni Cinquanta a oggi potrebbero tranquillamente riassumere la storia del rock: Lloyd Green (chitarra pedal steel nei Byrds), Charlie McCoy (polistrumentista per Dylan in Blonde On Blonde e Nashville Skyline), il batterista Gene Chrismas (Aretha Franklin), il bassista Mike Leech (Elvis Presley), il pianista Hargus “Pig” Robbins (Patsy Cline) fino ad artisti coetanei di Harper come Sean Lennon e Adam Green. E le collaborazioni celebri non si fermano qui.
Sei nato a New York, poi hai frequentato la Berklee School of Music a Boston e in seguito ti sei trasferito per qualche tempo a Londra. Qual è stata la tua evoluzione, come musicista, fino ad arrivare al tuo debutto che è giunto solo ora a 37 anni? Ho letto che in passato non ti eri ancora espresso musicalmente in maniera diretta perché non sentivi di avere molto da raccontare al mondo, è vero questo?
Fondamentalmente non ritenevo che il mio lavoro valesse a sufficienza per essere pubblicato. E non è che il mondo mi offrisse qualcosa per farlo. Poi gradualmente le cose sono evolute e sono migliorate qualitativamente, credo. Ho affrontato le difficoltà emotive e mentali che mi si presentavano in modo da essere abbastanza forte e avere sufficiente fiducia in me stesso per affrontare un intero progetto da solo. Ecco tutto.
Infatti hai scritto, co-scritto alcuni brani e co-prodotto l’album. Un lavoro lungo, forse un progetto il cui sviluppo a livello embrionale stava proseguendo da molto tempo e che finalmente si è ora concretizzato?
In realtà è un album molto personale, un disco onesto, che riflette un momento della mia vita, dove partecipano persone che amo e a cui tengo, non proprio qualcosa che ha radici troppo indietro nel tempo, per dirti la verità.
Penso che nel tuo disco probabilmente tu abbia compiuto in sordina una vera e propria impresa, hai raccolto insieme musicisti leggendari da diversi decenni fino a oggi. Doveroso chiederti, in particolare, qual è stata la tua esperienza a Nashville, con un produttore fondamentale come Bob Johnston e musicisti di tale caratura. C’è qualcosa che hai imparato, qualcosa che hai portato con te nella tua vita?
Ho cercato di essere fondamentalmente molto umile di fronte a Bob Johnston e a questi grandi musicisti, i cui nomi comparivano sugli album più importanti della mia vita, e forse della musica: trattarli con molto rispetto e reverenza e avere umiltà nel relazionarmi lasciando loro tutta la libertà di espressione che meritavano. Ed essi a loro volta si sono dimostrati molto generosi e di grande incoraggiamento. Abbiamo passato momenti davvero importanti, ho veramente imparato molto riguardo alla musica. Spiriti molto generosi, devo dire che è stata una grande esperienza che ha continuato a essere importante anche quando sono passato alla seconda e terza fase di lavorazione spostandomi a New York e Los Angeles e collaborando con tanti altri musicisti di altre generazioni e generi musicali.
E parlando di collaboratori della tua generazione, il missaggio è stato affidato ad esempio a Tom Rothrock (dietro il mixer di Foo Fighters, Beck ed Elliott Smith, ndr).
C’è una differenza che hai osservato fra i musicisti della vecchia generazione e quelli della nuova, una lezione che avete forse imparato da loro? E poi anche Sean Lennon ha partecipato all’album, è vero che vi siete conosciuti da bambini perché entrambi abitavate al Dakota Building?
Esatto, io e Sean abitavamo entrambi al Dakota e le nostre madri erano amiche, anche mio padre naturalmente conosceva John (Lennon). Sean ha collaborato all’album suonando la batteria e la celesta in un paio di brani. Ho suonato la chitarra in passato sul suo album "Friendly Fire", uscito circa tre anni fa. Mi ha ricambiato il favore. In fondo penso che in una certa misura tutti i musicisti parlino la stessa lingua, e se i musicisti si pongono in modo rispettoso e umile nei confronti della musica e della personalità degli altri artisti, se tu tratti le persone con rispetto, allora di solito riesci a comunicare con loro e a entrare dentro al loro mondo, e questo funziona per dar vita a grandi cose a livello creativo e artistico.
Hai dichiarato di aver concepito questo lavoro come un LP, non solo come un gruppo di canzoni, ma come omaggio al vinile del passato. C’era un progetto preciso dietro?
Possiamo in realtà parlare di un raggruppamento di brani, in quanto non è un concept album. Quello che intendevo dicendo questo è che cercavo di creare un album che potesse in qualche modo riflettere alcuni dei grandi dischi con i quali sono cresciuto. Album degli anni Sessanta e Settanta, l’epoca d’oro per quanto riguarda la produzione di dischi, ma anche grandi lavori di oggi, perché penso che ci siano alcuni grandi artisti anche nel presente. Quando ho detto questo intendevo dire che l’album è in sé una forma d’arte e che per me significa ancora qualcosa.
Passando ai brani dell’album, il pezzo Tennessee, che hai scritto con tuo padre Paul, e che hai specificato essere dedicato a tua madre che è nata in quello stato. C’è in qualche modo un collegamento con Nashville, la tua esperienza e la musica di quel luogo?
Mia madre è del Tennessee anche se non di Nashville in effetti, ma io ho sempre avuto una connessione per la musica di quello stato, il sound di Nashville, la musica country della città, il rock ‘n’ roll, il rockabilly, tutta la musica degli anni Cinquanta e Sessanta, i periodi che amo in particolare in merito a quella zona. Forse questa forte connessione deriva dal mio codice genetico in effetti, ma in realtà non saprei, perché non è la musica che veniva suonata in casa durante la mia infanzia, è un sound che fondamentalmente ho scoperto per conto mio.
Hai scritto Wishes And Stars con Ben Okri, un importante scrittore nigeriano e vincitore del Booker Prize, come lo hai incontrato e come è nata la vostra collaborazione?
Lo conosco da diversi anni, sono sempre stato un fan delle sue opere. Gli ho quindi chiesto di poter mettere in musica una delle sue poesie e mi è sembrato molto felice all’idea. Abbiamo quindi scritto Wishes And Stars e anche un altro brano, Back In My Arms (non incluso nell’album, ndr), ha avuto un atteggiamento molto incoraggiante nei confronti del mio lavoro e del disco.
Parlami poi della tua collaborazione con Tracey Emin, che ha realizzato l’art work del tuo album, un’artista inglese davvero molto particolare, per certi versi molto estrema, apparentemente proveniente da un mondo diverso dal tuo.
Davvero? Penso che sia un’artista molto rock, sono stato sempre un suo fan, ero presente anche ai suoi primi show e ho sempre pensato che il suo lavoro riflettesse un’attitudine punk e rock ‘n’ roll. Siamo diventati amici però negli ultimi anni, mentre lavoravo all’album, era un periodo piuttosto difficile per me e lei mi è stata molto vicina, per me è stato naturale chiederle un contributo. E credo che sia veramente un’artista molto importante oggi. Quello che le persone dovrebbero capire di me e di quest’album è che io non sono diverso da qualsiasi altra persona, sono ed ero semplicemente un fan: un fan di questi musicisti, di Ben Okri, di Tracey Emin, di Bob Johnston. C’è stata questa bellissima opportunità di lavorare con loro, mi sono posto in maniera umile e spero possa capitare ancora.
Hai definito la tua musica “un sound rock ‘n’ roll americano di controcultura”, giusto?
Sì, perché nasce dalla controcultura degli anni Sessanta, dal movimento hippy, dalla controcultura psichedelica a cui mi sono ispirato per la mia produzione, il mio è un disco di controcultura.
Doveroso chiederti di parlarci del rapporto con tuo padre tramite la vostra collaborazione all’album. E la storia dice poi che tu partecipasti al tour di "Graceland".
Oh no, quella è un’esagerazione di internet. Ero solo un ragazzino al tempo, ho suonato è vero in alcuni concerti, ma di sicuro non posso ritenermi un elemento importante del tour di "Graceland". Ci è piaciuto molto lavorare insieme, mio padre e io, ed è stato anche bello poter trascorre un po’ più tempo insieme. Io non vivo a New York come lui ma a Los Angeles, ed è stato piacevole poter lavorare insieme, visto che capita molto di rado di vederci. Mio padre ha poi anche riscritto alcuni versi di The Shine che avevo composto con Carrie Fisher (l’attrice che impersonava la principessa Leila nella saga di Guerre Stellari e seconda moglie di Paul Simon, ndr).
Che ricordi hai della tua infanzia e del periodo di Simon & Garfunkel? Sarai stato sicuramente presente ai grandi concerti di tuo padre a Central Park.
Sì certo, non ho suonato, ma c’ero. Che posso dire: pietre miliari per la carriera di mio padre.
(Cristiana Paolini)