Era l’epoca del brit-pop, quel fenomeno musicale che impazzò nell’Inghilterra degli anni Novanta. C’erano gli Oasis e c’erano i Blur, su tutti. Entrambi si rifacevano alla lezione dei Beatles, in particolare quella di Lennon e McCartney. Ma nei Beatles c’era pure un altro autore, certo meno prolifico ma in alcuni casi non da meno di loro. Si chiamava George Harrison, impazziva per l’India, le sue suggestioni mistiche e le sue musiche. Per completare il quadro del revival beatlesiano, dunque, durante l’epopea brit-pop mancava una band che pagasse tributo anche a lui, al piccolo George.
Ci pensarono i Kula Shaker del’ecclettico Crispian Mills. Arrivarono, vendettero milioni di copie, riportarono all’alba del Terzo Millennio i fantasmi dell’India, della psichedelica più spinta e tanti sogni di “pace & amore” e misteriosamente sparirono nel nulla.
Mai dire mai però, nella storia del rock se c’è una cosa che non morirà mai in chi ha avuto la fortuna di essere toccato dalla magica bacchetta della musica è che non ne potrai più fare a meno. Così sono tornati anche i Kula Shaker.
Il nuovissimo disco, appena uscito, “Pilgrim’s Progress”, in realtà segue già un ritorno di un paio di anni fa, “Strangefolk”, ma questo “Pilgrim’s Progress” si riallaccia maggiormente ai Kula Shaker degli esordi. I quali in realtà non furono mai esageratamente beatlesiani come Oasis e Blur. Guardavano di più alla stagione psichedelica californiana, tanto che uno dei loro brani si intitolava Grateful When You’re Dead, esplicito tributo ai campioni della psichedelica californiana, i Grateful Dead. Adesso, nel nuovo cd, guardano ancora ai quei giorni magici, ma si spostano su sponde più inglesi, come è giusto che sia.
E allora il riferimento questa volta è a un altro campione della psichedelia, quella più dolce, più inglese appunto, il piccolo menestrello Donovan. Quello che cantava di “bucce di banana elettriche” e di stagione delle streghe, belle poesie in musica che pescavano tanto nella nuova cultura della droga che in quella della tradizione folk anglosassone. E’ quello che fanno i “nuovi” Kula Shaker.
Ecco allora che il disco si apre in modo appropriato con un brano che si intitola Peter Pan RIP, Peter Pan riposa in pace. Un modo per tagliare i ponti con certi sogni adolescenziali e certi riferimenti culturali britannici? Può darsi, sta di fatto che è un bell’inizio, nel segno di un folk rock moderno e vitale, con elegante dispiego orchestrale che ne valorizza l’emozionante melodia.
Rimangono i riferimenti, testuali e musicali, alla psichedelica dei sixties, qua e là, ad esempio in un altro pezzo anch’esso dal titolo emblematico, Barbara Ella, riferimento evidente a quella Barbarella del cinema anni Sessanta interpretata da una giovanissima Jane Fonda. Altrove si scende nella poesia acustica e decisamente folk di episodi deliziosi come Ophelia o Winter’s Call, oppure si bruciano i motori con brani di blues quasi garage come Modern Blues. C’è anche uno strumentale, When a brave needs a maid, dove Mills si diverte a recuperare le atmosphere crepuscolari di certi film suonati da Ennio Morricone.
E non è un caso la location scelta dalla band per registrare il tutto: Chimay, la cittadina medievale belga patria di una birra famosa e di cultura monastica, in uno studio di registrazione costruito appositamente. Perché certi suoni, certe musiche, certa poesia, bisogna andarsele a cercare. Non arrivano alla porta di casa, come le bollette del telefono. E in questo continuo cercare musica degna di nota, i Kula Shaker assolvono nel modo migliore. Con l’onestà. E pensando a quello che rimane del brit-pop, ben vengano dischi come Pilgrim’s Progress.
Dall’altra parte dell’oceano risponde invece una band di ben più lungo corso dei Kula Shaker. Loro sono Tom Petty and the Heartbreakers, sulle scene sin dagli anni Settanta, una carriera che li ha visti collaborare con mostri sacri quali Bob Dylan, George Harrison e Johnny Cash.
Una band dal perfetto spirito americano più genuino in grado di rivaleggiare se non superare la E Sreet Band come miglior american rock’n’roll band. Il nuovo disco, il primo di canzoni nuove in quasi otto anni, si chiama “Mojo”, esattamente come l’amuleto classico del blues, a cui tanti grandi brani della musica nera sono stati dedicati. Ed è proprio una cavalcata goduriosa e appassionata nel blues nelle sue più diverse sfaccettature il contenuto di questo disco. E sebbene il leader, cantante e compositore principale sia sempre il biondo Tom Petty, a un ascolto approfondito questo disco potrebbe intitolarsi in realtà Mike Campbell and the Heartbreakers.
Mike Campbell, cioè lo straordinario chitarrista del gruppo che in questo “Mojo” dà uno sfoggio esaltante delle sue incredibili qualità. Era probabilmente dai tempi in cui Eric Clapton veniva ribattezzato “Dio” cioè la fine dei Sessanta, i primi Settanta, che non si sentiva in un disco rock tanto sciabordare di chitarre dai suoni pulsanti, riff strabordanti, assoli lunghissimi tra psichedelia e blues power. Nei credits del disco sono listate tutte le chitarre usate per registrarlo, a mo’ di dichiarazione di intenti: Gibson ES-335 del 1964, una Les Paul Sunburst del 1959 e via così.
“Mojo” è un disco che riporta alla stagione del british blues, tra Yardbirds e Cream, ma con un senso di “americanità” che solo gli Heartbreakers sanno esprimere, ad esempio in brani che puzzano di profondo Sud degli States come Jefferson Jericho Blues. In First Flash of Freedom, invece, è come se lo spirito di due grandi morti del rock riprendesse a camminare in uno studio di registrazione: Jerry Garcia e Duane Allman, Grateful Dead e Allman Bros Band. In I Should Have Known It gli Heartbreakers pagano tributo ai signori dell’hard blues rock, i Led Zeppelin: il riff che spadroneggia in lungo e in largo per tutto il pezzo è da paura.
Il resto della band non è da meno, ad esempio il funambolico tastierista Benmont Tench le cui note grasse di Hammond colorano il tessuto di fondo di uno dei dischi più straordinari degli Heartbreakers e dell’ultima stagione del rock’n’roll. Invocando lo spirito voodoo del “Mojo”, naturalmente.