Ogni scritto di Mario Bortolotto è una scalata in vetta. Musicologo raffinato, enciclopedico, quasi irritante nel suo sicuro procedere attraverso la giungla di rimandi, glosse, parentesi e citazioni che lascia dietro di sé.

È un vino antico, da centellinare una proposizione alla volta. Garantita la scoperta d’inedite prospettive, spesso paradossali. Il suo vecchio “Fase seconda” dell’Einaudi, rieditato da poco per i tipi di Adelphi, dedicato alla musica del Novecento, diventò subito un punto di riferimento per chiunque si occupasse di esegesi di musica contemporanea.



Il volume sulla modernità musicale francese tardo ottocentesca, “Dopo una battaglia”, ha ribaltato convinzioni inveterate. Lontani fasti del romanticismo russo sono tornati a nuovo splendore dopo le sue cinquecento pagine di “Est dell’Oriente”. I suoi studi riguardanti Strauss e Wagner hanno svelato sfaccettature multiple e insospettate.



Altrove ha sbugiardato certa truffaldina filologia, sbeffeggiato le castronerie di sedicenti registi d’opera, magnificato brani d’oggi (Helikopter-Oktett) che avevamo frettolosamente archiviato come cialtronerie, tirato le orecchie a tutti i pianisti che scrivono “il Gradus” di Clementi: “è un plurale, quarta declinazione, non singolare”, puntualizza Bortolotto.

C’è sempre in lui il gusto della scoperta, il piacere dell’ingresso da porte secondarie. Accade anche in “Corrispondenze” (Adelphi, pp. 511, € 36), raccolta di recensioni, articoli, brevi saggi, apparsi negli scorsi anni su quotidiani e riviste varie. Nessuno dei grandi maestri manca all’appello, ma c’è spazio anche per temi insoliti, autori meno frequentati, argomenti desueti.



Per esempio, in Leopardi colpiscono l’impressionante chiarezza critica (quando parla di musica nello Zibaldone), la ferrata preparazione teorico-acustica, le anticipazioni di una futura musica di colori (Skrjabin è profetizzato con un secolo d’anticipo), il racconto di una moltitudine di suoni formicolanti irregolarmente mescolati e indistinguibili (inconsapevole descrizione dei Gruppen di Stockhausen).

Conoscevamo l’eletta clausura di Schubert, il suo ostinato e volontario isolamento; ci hanno turbato talune sue corrosive insofferenze religiose, quella immobile spettrale rassegnata attesa della morte che Bortolotto tratteggia impietosamente. Anche l’apollinea ed eufonica immagine del divino Amadé, è criticata alla base: si vedano, nel vasto catalogo di Wolfgang, certe soluzioni ambigue e illusorie – armoniche, polifoniche, formali; un’acusticità disequilibrata, astratta, cristallizzata, sbilanciata verso l’interno; un’oscura “poesia del torbido” che affiora da molte pagine mozartiane.

L’epistolario di Berlioz è passato al setaccio; ne fuoriescono grumi tematici inquietanti e/o irriverenti: un’occulta devozione satanica, un diffuso acido umor nero, scarne relazioni di autobiografici delirium tremens, una sorta di furibondo odio anti-italiano (popolo vile e moscio miserabili, scimmie, fantocci, i termini più teneri a noi indirizzati).

 

 

 

Arturo Benedetti Michelangeli è rievocato sia attraverso ricordi personali che penetranti analisi di alcune sue armonizzazioni di canti alpini. E così via, un musicista dopo l’altro, danzando spavaldo sull’orlo di numerosi abissi.

Scrittura irta ellittica subdola, quella di Bortolotto, espressa con un fiammeggiante lessico barocco. Occorre avere un vocabolario a portata di mano (peonio, portolano, sinecismo, oggidiane, rabido ventare). Che al lettore non manchino nemmeno dizionari di francese, latino, spagnolo, tedesco, per le estese citazioni in lingua.

Sono gradite pure partiture con numeri di battuta, per rinvenire con facilità i continui esempi musicali che accompagnano la fluviale narrazione. Leggere Bortolotto è un cammino accidentato, imprevedibile, pieno di deviazioni. Si giunge all’ultima pagina con la certezza che la musica non è la superflua colonna sonora della vita culturale occidentale. Ne è parte irrinunciabile, vitale. Indispensabile per la sopravvivenza della nostra civiltà.