Dicevano che i Led Zeppelin facevano la musica del diavolo. Certo, si sa, il blues è la cosiddetta “musica del diavolo”, crocicchi e vendita dell’anima in cambio del dono di saper suonare la chitarra al chiaro di luna incluso. Come in ogni buona storia, di quelle da spaventare i bambini a sera, intorno al fuoco. E i Led Zeppelin di blues ne hanno macinato parecchio, a modo loro. Ma si diceva che certe loro canzoni, se suonate all’incontrario, ad esempio Stairway to Heaven, contenessero veri e propri messaggi “diabolici”. Chissà.
Certo è che Jimmy Page di frequentazioni diaboliche per un po’ di tempo ne ha avute davvero e uno di loro, il batterista John Bonham, l’anima l’ha resa davvero una notte dopo averla passata in bagordi proprio a casa di Page . Robert Plant, invece, incidendo nel suo ultimo disco solista (per la cronaca, la più bella raccolta di canzoni che un membro degli Zeppelin abbia inciso dai tempi in cui il gruppo si sciolse, trent’anni fa) ha deciso di mettersela in salvo, l’anima, prima che Belzebù venga a chiedergliela indietro. Come a chiudere un cerchio, ha infatti inciso un antico brano gospel che si intitola Satan, Your Kingdom Must Come Down.
E cioè: “Satana, il tuo regno deve terminare”. Mica male per uno accusato di fare la musica del diavolo. Si scherza ovviamente, sta di fatto che “Band of Joy”, il nuovo disco solista dell’ex cantante degli Zeppelin, è un gran disco. Portando ancora avanti il viaggio nel cuore della musica americana cominciato tre anni fa con il già bellissimo “Raising Sand”, inciso insieme alla star della musica country progressive Alison Krauss, Plant è tornato a Nashville.
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Ma invece di circondarsi dei musicisti patinati che lavorano nella “music city”, ha chiamato il chitarrista Buddy Miller, una vecchia volpe del country più alternativo, per anni a fianco di Emmylou Harris, e ha inciso il disco definitivo della riscoperta e rivalutazione delle radici americane. Attenzione: non aspettatevi l’ennesimo cd fatto di fiddle, banjo, chitarre acustiche e armonie vocali. Qua di chitarre elettriche ce ne sono eccome, e in diverse occasioni rievocano proprio quei riff da “martello degli dei”, come disse qualcuno, che era proprio degli Zeppelin.
Quello che ha fatto Plant con “Band of Joy”, è stato invece evocare un substrato musicale, un eco di suoni e misteri, rileggerlo a modo suo con un fascino assoluto. Gli Zeppelion, con il loro disco capolavoro, “Led Zeppelin IV”, del 1971, avevano già rievocato tradizioni e forme sonore folk, di entrambe le sponde degli oceani, quella americana e quella inglese. Plant va adesso nel cuore pulsante della tradizione americana e ne esce vincitore assoluto. Il che, fatto da un inglese, significa qualcosa.
Ma gli Zeppelin, in fondo, come gli Stones e i Beatles, hanno avuto sempre il cuore che batteva profondamente a stelle e strisce, e per loro vale quello che è stato detto appunto degli Stones e dei Beatles, “inglesi che si sentivano americani immaginari e perciò hanno fatto i migliori dischi di rock americano”. Contiene solo brani tradizionali o di altri artisti, “Band of Joy” (il gruppo della gioia era la band in cui il diciassettenne Robert Plant militava insieme al futuro batterista dei Led Zeppelin, John Bonham). Un lavoro pieno di fascino, di gusto del mistero, di senso della sfida, un viaggio al cuore della musica.
Buddy Miller, chitarrista e polistrumentista – suona anche mandolino e banjo – ha lavorato con il suo gusto sporco e molto ruvido, creando echi di fantasmi, di suoni tombali, presenze misteriose, ma che la voce ancora straordinaria di Plant – meno acuta, più greve e sfumata grazie all’età – celebra con gioia, proprio come indica il titolo del disco.
Lo ha spiegato lo stesso Plant, cosa sia questo disco: “Ho scoperto di non avere nessuna cognizione di cosa sia veramente Nashville: è moltissime cose diverse messe assieme. Il mondo di Buddy è bellissimo, con riflessioni che rimandano al rockabilly della metà degli anni 50 e i grandi successi country, passando per il soul e l’R&B di Memphis. Non si tratta solo di cogliere una musicalità eccellente, ma anche la sua anima più profonda. Buddy è parte integrante di questo disco, si può sentire il suo gusto in ogni traccia. Ha aiutato ad apportare una tinta psichedelica al disco perché sotto la superficie è un grande fan di Roky Erickson e dei 13th Floor Elevators”.
Psichedelia country, una roba che ovviamente i Led Zeppelin non potevano e non potrebbero fare. Ecco perché Robert Plant, nonostante le offerte miliardarie, ha rifiutato ogni ipotesi di reunion, dopo il concertto di Londra del 2007: “Non ho intenzione di finire come un gruppo di vecchi annoiati che vanno in giro correndo dietro ai Rolling Stones”. Quando si dice un musicista onesto. Nel disco, due brani risalgono addirittura al Diciannovesimo secolo, Cindy, I’ll Marry You One Day e la già citata Satan, Your Kingdom Must Come Down.
Ci sono poi brani di autori moderni, ma sempre legati alla tradizione, come l’iniziale Angel Dance del gurppo ispano-americano dei Los Lobos, e House of Cards di Richard Thompson, ex Fairport Convention, uno dei primissimi gruppi di folk-rock inglese, contemporaneo dei Led Zeppelin. Un paio di brani pagano amorevole pegno alla tradizione country più verace, quella dell’immediato dopo guerra, e cioè You Can’t Buy My Love di Barbara Lynn e la deliziosa Falling In Love Again, dei Kelly Bros, che, giocata su armonie a quattro voci, diventa un emozionante canto gospel.
Ancora: due brani di un gruppo modernissimo, definiti gli alfieri del post rock, gli americani Low, e poi uno di Townes Van Zandt, leggendario songwriter texano, Harm’s Swift Way. Per concludere il tutto con un tocco di grande classe, la messa in musica di una poesia di Theodore Tilton, risalente al 1866 (si intitolava The King’s Ray, adesso è diventata Even This Shall Pass Away.
Come dire, siamo piccola cosa nel grande moto del cosmo, anche questo passerà. Anche le cose belle, anzi bellissime, come le canzoni di questo disco di Robert Palnt. E dicevano che era la musica del diavolo.