Nel 1979 in piena esplosione punk, uno dei massimi esponenti della Woodstock Generation, l’hippie per eccellenza, capello lungo, anzi lunghissimo, jeans pieni di toppe colorate (come si potevano ammirare nel retro copertina del suo disco del 1970, “After the Gold Rush”), l’autore di ballate spezza cuori come ad esempio Helpless, se ne usciva con un disco di rovente rock al calore bianco che non aveva niente da invidiare a quello dei pischelli del punk.
Il disco in questione – che era poi un tributo a Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols – si intitolava “Rust Never Sleeps”, la ruggine non dorme mai, e il suo autore era Neil Young. Non solo: in uno dei pochi brani acustici di quell’album, dava l’addio ai suoi vecchi compagni nell’avventura hippie (Crosby, Stills and Nash con cui aveva inciso dischi memorabili come “Deja Vu” o “Four Way Street”) con parole che suonavano quasi degli insulti: “A un certo punto mi annoiai e li lasciai lì, per me loro erano solo un peso morto, è molto meglio andare in giro senza quel peso addosso”. Il tizio che stava sconvolgendo una generazione era Neil Young.
Negli anni, di cambiamenti epocali che avrebbero gettato nello sconforto e nello smarrimento i fan ne avrebbe fatti sempre di più, a volte autentiche immondizie musicali, come quando si diede all’elettronica o quando si impomatò i capelli di brillantina per fare del rockabilly. Altre volte gli riuscì meglio, anzi così bene che la generazione dei Kurt Cobain e degli Eddie Vedder, quella del grunge, lo elesse proprio padre putativo, “il padrino del grunge” appunto. E fecero anche dei dischi insieme. Cambiare, per Neil Young, è necessità vitale, più che artistica, perché “la uggine non dorme mai” e per tenerla lontana bisogna muoversi.
A volte, in questo percorso, Young è anche tornato ai vecchi amori, incidendo dolenti dischi di country acustico o tornando sul palco con “i dinosauri” Crosby, Stills and Nash, ma una nuova svolta musicale è sempre dietro l’angolo. Addirittura qualche anno fa provò anche con il R&B alla Blues Brothers. Che abbia fatto parecchi dischi brutti si può dire; che a Neil Young manchino onestà personale e integrità invece non si potrà mai neanche pensare.
Il 28 settembre esce il suo nuovo capitolo discografico. Si intitola “Le Noise”, un titolo quanto mai appropriato per il musicista ormai 65enne. Il titolo sta per “rumore”, e Neil Young è uno che con il rumore ci sa fare. Qualche anno fa pubblicò un disco che non conteneva neanche canzoni, ma solo feedback, quelle lunghe code chitarristiche che ama fare al termine delle sue lunghe cavalcate elettriche sul palco. Un disco assurdo, similare a quanto fece Lou Reed con il suo “Metal Machine Music”.
Chi ha visto Neil Young dal vivo sa cosa intendiamo per “rumore”: chitarrista non particolarmente dotato tecnicamente – non è Eric Clapton, tutt’altro – è capace però di esprimere una potenza sonora devastante, in brani che possono durare anche venti minuti di autentico “noise”, rumore. Ecco perché tanti “giovani” come Sonic Youth o Pearl Jam hanno amato esibirsi con lui. Il nuovo disco dunque come tributo al lato più “perverso” del canadese, mai così lontano dall’hippie di Woodstock. Perché il titolo in francese, “Le Noise”?
Perché Neil Young è canadese, nazione francofona per eccellenza, e in questo disco si è fatto aiutare nella produzione da un altro canadese di primo piano, quel Daniel Lanois che ha prodotto dischi di U2, Bob Dylan e Peter Gabriel fra gli altri. Ci si aspettava un disco elettrico come i tanti che Young ha inciso con i Crazy Horse, sua backing band per eccellenza. Sì, è un disco elettrico, ma è anche il primo vero disco completamente da solo del cantautore. A parte Lanois che fa qualche effetto sonoro, qualche loop in sottofondo, c’è solo Young, la sua Gretsch sfavillante e in un paio di brani l’acustica. E la sua voce. Un disco sperimentale dunque, ma dal grandissimo fascino.
Più che rumore però, questo disco avrebbe dovuto chiamarsi “sound”, suono. E’ una concessione totale all’idea del suono che una chitarra può generare, il riverbero per eccellenza, una sorta di catalessi sonora che dura quanto il suo autore vuole possa durare. Affascinante, comunque, perché il quasi settantenne musicista a differenza dei suoi coetanei continua a sfidare se stesso e il suo pubblico. Ma affascinante anche perché c’è moltissima poesia in questo “rumore”. Daniel Lanois ha raccontato che il disco è stato messo insieme durante un periodo “di quattro lune piene”. E si sente.
“Le Noise” è disco notturno per eccellenza, quelle notti in cui il cuore urla impaziente il suo bisogno di infinito, e una canzone e una chitarra scorticante che brucia insieme alla luna e al cuore sono l’unica cosa che resta per attaccarsi e non sprofondare. Neil Young decadi fa, dedicò uno dei suoi dischi più dolorosi a due amici morti di droga e lo intitolò “Tonight’s The Night”, questa notte è la notte.
Quella notte eccola che torna nuovamente, adesso che da ricordare c’è l’amico di una vita Ben Keith morto proprio durante queste incisioni. Ma non è più la notte alcolica e drogata di allora. Una luce di speranza si accende alla fine di questo disco. E allora, nel dettaglio, questo il disco che abbiamo ascoltato in anteprima.
Walk with Me – Il disco si apre con l’abrasiva chitarra e una voce doppiata che si alza con tono disperato, anche se si parla del “sentire il tuo amore”. Quattro minuti e ventisei di riff incalzanti e un senso di dislocamento che è più forte che altrove nel disco. Feedback naturalmente e la voce che sprofonda e riemerge dai magma sonori.
Sign of Love – Attacco del pezzo ancora con un riff imponente, ancora una canzone d’amore e il contrasto tra la delicatezza dei versi e la brutalità sonora, che è un po’ la chiave del disco. Ma è una brutalità smorzata: è il riverbero il segreto del sound, del suono, di questo cd.
Someone’s Gonna Rescue – La voce in falsetto tipica delle canzoni più oniriche e trascendenti del canadese. La chitarra ricca di effetti, su cui ha evidentemente lavorato Lanois costruendo lo
op ed effetti sonori all’infinito. Il riff finale ricorda curiosamente quello che concludeva la classicissima Everybody’s Knows This Is Nowhere, risalente al 1969.
Love and War – E’ la prima pausa acustica del disco, un pezzo che attacca con il tipico modo di suonare strumming del canadese. La melodia è antica e sa del vecchio folk odoroso di querce canadesi. “Ho visto giovani andare in guerra lasciando giovani moglie, ho cercato di spiegare ai loro figli che il loro padre non tornerà più a casa”. Versi stucchevoli? Non per uno che è passato tra tre guerre, quella del Vietnam e due in Iraq, che si sono portate via prima quelli della sua generazione, poi i loro figli. Quasi sei minuti di acustica poesia: “Quando canto di amore e guerra, non so davvero di cosa sto cantando, ma vedo un sacco di gente pregare”.
Angry World – Comincia con la voce in loop quindi il riff doppiato di elettrica. La melodia è maggiormente curata in questo pezzo, ricorda l’approccio di certi brani incisi ai tempi dei Buffalo Springfield, la band in cui Young iniziò la carriera a metà degli anni Sessanta. La chitarra viene sdoppiata con un riuscito effetto sonico mentre loop vocali galleggiano tra i feedback. Il finale è quasi un minuto di rumorismo vocale e sonico.
Hitchiker – Pezzo aggressivo, che aspetta solo l’entrata di una sezione ritmica che però non arriva mai. “Cerco di lasciarmi dietro il passato ma continua a prendermi, non so come faccio stare in piedi a vivere la vita che vivo: ringrazio i miei figli e la mia fedele moglie”: chi ha detto che i musicisti rock sono trasgressivi? Oppure avere una moglie fedele e dei figli è la vera trasgressione, in questa epoca di false trasgressioni e menzogne idealistiche.
Si finisce sempre per tornare da dove si era partiti, evidentemente, anche per quelli della generazione di Woodstock, e forse quei valori una volta combattuti erano meglio di quanto si è proclamato. E per uno che su tre figli ne ha due gravemente malati (cerebrolesi) queste sono parole che significano parecchio. Il resto lo fa il suono abrasivo e scorticato della chitarra elettrica.
Peaceful Vally Boulevard – Il secondo pezzo acustico. Pochi sanno imporre un “suono” così imponente con una chitarra acustica. Sicuramente Young lo sa fare. Ballata malinconica senza tempo dal passo inconfondibile: poteva essere su uno dei suoi primi dischi. Lo stesso senso di lucida malinconia che permea brani immortali come Last Trip to Tulsa.
Rumblin’ – Il brano conclusivo e anche il più inquietante Riffone implacabile, melodia inquietante, degna di quelle notti di luna piena in cui il disco ha preso vita. Un pezzo che dal vivo promette di entrare tra i grandi classici del canadese, dotato come è di una classica melodia della sua e di un impatto che può essere, tanto per rimanere in tema, puro “rumore”. Come quasi tutti i brani di questo disco, finisce troppo presto. Sembra solo accennato, quasi un demo, una prova. Avrebbe meritato un altro dispiegamento, ben più lungo. Ma ci sarà spazio nei prossimi concerti del canadese per apprezzare il contenuto profondo del "noise" di questo cd.