Gli Skin Diary sono atipici fin dall’immagine: il loro look è uno scontro frontale in contromano fra i Mothers of Invention di Frank Zappa e i primi Red Hot Chili Peppers, con l’aggiunta – determinante – della bionda vocalist, che incarna tutto il fascino della bellezza femminile teutonica. La musica? È di quelle che danno del filo da torcere: definirla non è affatto semplice, ma questo va a loro vantaggio.

Infatti, il sound e la vocalità della band sono talmente figli delle influenze più disparate da risultare – alla fine – coagulati attorno a un trademark sonoro unico e personale. La maternità topografica della band è, non a caso, l’ispiratissima e bastardissima Berlino: inevitabile che il meltin’ pot umano e culturale dell’imprescindibile capitale tedesca confluisca nel sound del gruppo. Proprio la line-up è diretta testimonianza di questo crogiuolo di razze e culture: bassista e cantante teutonici, chitarrista italiano e batterista iraniano.

Volendo forzare la mano alle etichette – superflue per i patiti, ma necessarie a chi ha gusti musicali più “standardizzati” – direi che la loro musica rimbalza fra una vocalità personalissima, dove però – qua e là – si rincorrono tanto la Debbie Harry dei Blondie, quanto la PJ Harvey meno stentorea e – nei pezzi più evocativi – un lirismo caro alla Bjork pre-solista, quella degli Sugarcubes; un chitarrismo debitore di John Frusciante e Larry LaLonde dei Primus, band riecheggiata anche dalla ferratissima sezione ritmica, che cerca il groove con incastri atipici e mai banali, riuscendo sempre a spingere le sonorità del gruppo verso territori inusuali per un quartetto tipicamente rock (voce, chitarra, basso, batteria). 

L’omonimo album di debutto arriva dopo svariati demo che la band aveva realizzato con Fabio Trentini, già al lavoro coi Guano Apes. Oltre alla line-up, le similitudini col più fortunato gruppo di crossover tedesco riguardano anche certi riff chitarristici vorticosi e carichi di groove e stop&go ritmici tipo Rage Against The Machine (come nel brano Too Late, che introduce il disco).

La seguente Right Below è una sorta di nu-metal evoluto e imparentano con le sonorità dei System Of A Down più acidi. One of a Kind è forse la traccia più convincente: un pezzo dove la ritmica (René Flächsenhaar al basso e Puya Shoary alla batteria) la fa da padrona, coadiuvata da una chitarra molto John Frusciante e da un cantato dal sapore new-wave, sebbene poi sia il grunge più ricercato a far capolino nel coinvolgente ritornello.

Brother in my Belly
è introdotta da un ricamo arabeggiante alla chitarra, cui segue un bridge sincopato in crescendo, che introduce un arrabbiatissimo ritornello: non avrebbe certo sfigurato nel monumentale e indefinibile Angel Dust dei compianti precursori del crossover Faith No More. Shameless Mrs Amos ha un andamento ipnotico nelle strofe, l’imprinting generale del pezzo è ancora dalle parti di Zappa, ma – nella superba apertura centrale – pare materializzarsi la cristallina classe vocale di Kate Bush (!). 

È – certamente – materia ostica per i timpani dell’ascoltatore meno smaliziato, ma gruppi del genere servono proprio a questo: ad aprire verso nuove soluzioni sonore un genere spesso abusato come il nostro caro, mai vecchio, rock.

Cospargete il tutto di magica polverina funky, figlia degli esempi sopracitati (Frank Zappa e Red Hot Chili Peppers degli inizi), aggiungete la carica selvaggia, divertente e carismatica del gruppo dal vivo e il gioco (è un eufemismo!) è fatto: ecco gli Skin Diary.

Si chiude con Cocoonin’, orientaleggiante e rarefatta, che esalta le profondità vocali della cantante Jessica Jekyll (nomen omen: bellezza particolare di fronte all’obiettivo, si trasforma in vero animale da palcoscenico dal vivo); l’acustica tremolante del chitarrista catanese Pierpaolo De Luca omaggia tanto i Calexico, quanto l’opera suadente del maestro indiano Taj Mahal; la ritmica è essenziale: folk più tribalismo sanguigno.

Se a tutto ciò aggiungete che in versione unplugged (c’è un live gratuito, a tal proposito, da scaricare dal loro sito) gli Skin Diary virano ritmicamente verso uno ska-reggae di classe – infarcito di fiati e cori femminili, tipo le produzioni nere di Phil Spector – vi renderete conto che la loro statura artistica di musicisti è fuori discussione, così come questo particolare etno-crossover che si sono inventati. 

(Giuseppe Ciotta)