Difficile stare lontano dal blues. Impossibile per chi ha qualche battito cardiaco irregolare resistere al suo fascino, al suo richiamo, alla sua forza subdola e carnale.

Sia che ci si avvicini ai suoi standard per quella empatia viscerale che è di Elmore James, Robert Johnson o B.B. King, sia che si scoprano le veemenze psichedeliche di Hendrix o Stevie Ray Vaughan, sia ancora che qualcuno si converta vedendo i Blues Brothers o il magnifico Cadillac Records (con Beyonce nella parte di Etta James e Jeffrey Wright nei panni di Muddy Waters), rimane l’attrazione di un genere che è feeling e sudore ancora oggi, alla faccia delle industrie e di iTunes.



In questo primissimo scorcio di 2011 ci sono tre album blues su cui vale la pena spendere l’attenzione, tre “ritorni” graditi e a loro modo riusciti e di altissima qualità.

Il primo è il ritorno di una delle formazioni di swing-blues più longeve della storia, i Roomful Of Blues, con il nuovo “Hook, Line & Sinker”.
In circolazione dalla fine degli anni Settanta, i Roomful hanno visto negli anni un viavai di componenti dopo l’uscita dalla formazione di Duke Robillard, stupendo chitarrista fondatore della band.



Oggi il gruppo è il solito vasto ensemble (otto elementi) di chitarre, pianoforte, ritmiche e ottoni
che nella storia ha costruito un sound swamp and swing di enorme divertimento. Dodici pezzi con la voce di Phil Pemberton (Come on home è il suo capolavoro vocale) e la chitarra di Chris Vachon in bella evidenza, con una produzione precisa (nella quale c’è pure lo zampino di Clarence Gatemouth Brown) sono un divertimento assicurato per chi ha apprezzato i Blues Brothers e più in generale le “blues revue” (da Little Charlie and the Nightcats ai Fabulous Chickenhawks). 

Il live trascinante di Ain’t Nothing Happening e il lentissimo bluesy di Time Brings About a Change sono forse i momenti migliori, intensi e convincenti del disco, confermando che questo ritorno (dopo tre anni di concerti e qualche cambiamento in formazione) mostra una band ancora ispirata e motivata.



Chi  non ha bisogno, forse, di presentarsi “motivato” è mister Gregg Allman, vale a dire uno dei simboli viventi del rock, l’unica voce bianca (insieme a quella di Van Morrison) che può cantare blues senza apparire un cartone dei Simpson.

Nato a Nashville 64 anni fa, Gregg è stato il fondatore, insieme al fratello Duane (scomparso in un incidente di moto nel 1971) della Allman Brothers Band, formazione in circolazione dal ’69 ai giorni nostri.

Ogni tanto Gregg si prende una vacanza dai compagni di avventure e produce un disco in solitario e nel passato ha pure azzeccato dei prodotti imperdibili (come "The Gregg Allman Tour" nel ’74 e "I’m No Angel" nel ’86).

A quattordici anni dal precedente titolo solista ("Searching for simplicity"), Gregg esce in questi giorni con "Low Country Blues", un disco di reverenti omaggi a brani più o meno classici della tradizione blues registrati con la guida di T Bone Burnett, uno dei produttori più autentici nel solco della tradizione made in Usa.

Anche in questo caso sono dodici i pezzi della tracklist, ricca di tradizionali e titoli di padri del blues, che nella voce insuperabile di Gregg assumono una contemporaneità densa e fascinosa. Grandi comprimari di questa operazione sono gente navigatissima come il simbolo pianistico di New Orleans, Dr.John, il chitarrista Doyle Bramhall II e il trombonista e arrangiatore Darrel Leonard: tutti insieme rendono Little By Little (di Little Milton), Please accept my love (di B.B.King), Rolling Stone (in una versione che sa di palude e di Louisiana) e Tears, Tears, Tears (di Amos Milburn), le perle di un disco che si ascolta rilassati e sognanti.

L’unico titolo non tradizionale (o riferibile ai “padri”) è Just Another Rider, di Gregg e di Warren Haynes (in riferimento per nulla velato alla classicissima Midnight Rider) ed è uno dei brani migliori, a confermare che Gregg anche dal punto di vista compositivo non ha perso la vena (e non a caso l’ultimo disco della Allman brothers band, "Hittin The Note", del “lontano” 2003, era ricco di bellissime canzoni sue tra cui Old before my time, High Cost of Low Living e Desdemona).

Da un cantante-organista come il leggendario Gregg a un chitarrista che ha iniziato a esibirsi a Washington circa 40 anni fa ed è considerato (a ragione) un maestro della chitarra rock-blues, Tom Principato.

Antico compagno di scorribande di Danny Gatton e Jimmy Tachteray, Tom torna a incidere dopo aver registrato una bella manciata di bei titoli (consiglierei Tip Of The Iceberg, In The Clouds e Live and Kickin’) e qualche anno di silenzio.

Il suo nuovo "A Part Of Me" è davvero un album godibile. Il suo chitarrismo è ricco e variegato e passa dal rhythm’n’blues (Dont wanna do e Sweet Angel) alla easyjazz ballad (Stranger’s eyes), raggiungendo la pulizia e l’ispirazione migliore in Down The Road, una highway song che ha ricevuto forti suggestioni souhern e Down in Louisiana, che pare venire dall’archivio di Mike Bloomfield.

Su tutto la chitarra magistrale di Principato, capace di sfumature e virtuosismi, come nella sensuale e struggente ballad Back Again and Gone, che deve più di una ispirazione a quel genio che era Danny Gatton, a cui la canzone è dedicata.

Dunque, per finire, meglio Tom, Gregg o gli inossidabili Roomful? A voi la scelta, anche se Principato si farà preferire dai tecnici del blues, mister Allman da chi cerca il blues “tutto intero”, e la swing’n’blues band da chi sceglie a priori un suono divertente, al limite del ballabile.