VERDENA – WOW – Giunge a compimento il percorso artistico, ormai decennale, del trio bergamasco. I fratelli Alberto e Luca Ferrari, con Roberta Sammarelli, consegnano al pubblico l’ambizioso doppio album “Wow” – a 4 anni di distanza dal precedente “Requiem” – e il coro, stavolta, è unanime: è il loro capolavoro.
Anche noi ci accodiamo alle meritate lodi della critica. Il gruppo si smarca in toto da influenze ingombranti, che ne avevano pregiudicato la credibilità presso chi pretende – in primis – che una band si autodefinisca creando, anzitutto, una sua cifra stilistica peculiare.
Premesso che nel rock nulla si crea e ogni cosa si ricicla (o, quando va bene, si reinventa) – almeno dagli anni Settanta in poi, se da non prima – è pur vero che l’omonimo debut del ’99 era figlio tanto dei Nirvana, quanto dei Motorpyscho (ma non avevano neanche vent’anni!); il sequel “Solo un Grande Sasso” infarcito di derive post rock (però risale a quel disco l’inarrestabile crescita musicale del gruppo); il terzo “Il Suicidio dei Samurai” riportava al crudo epilogo grunge anni Novanta (pur trovandoci le più belle parole mai scritte da Alberto, spesso criticato per i testi: criptici per alcuni, inconcludenti per altri); il quarto “Requiem” guardava allo stoner rock più dilatato (sebbene alcuni pezzi lasciassero presagire la definitiva e irreversibile personalizzazione della loro proposta).
I 27 brani di “Wow”, invece, suonano Verdena in tutto e per tutto. Certo, si rincorrono fascinazioni neopsichedeliche (MGMT, Jennifer Gentle), omaggi al pop nobile (Beatles, il Lucio Battisti più sperimentale), sguardi ai modelli ispirativi (Melvins), ma il tutto è ormai trasfigurato in brani che sono – senza alcun compromesso e con enorme coraggio creativo – puro e cristallino “Verdena sound”: solo chi è in mala fede si ostinerà a non riconoscere il ruolo di primo piano che la band merita, non solo a livello nazionale.
Altra degna sottolineatura, i suoni: come “Requiem”, anche “Wow” è stato registrato, prodotto e missato da Alberto Ferrari in prima persona. Il risultato lo pone in luce come ingegnere del suono, ormai pronto a misurarsi dietro la consolle di altri artisti: se si esclude Giulio Favero (Il Teatro degli Orrori), chi altri riesce a catturare in modo così reale i suoni di batteria? Se aggiungete che Luca Ferrari si riconferma uno dei più creativi e ubriacanti batteristi rock italiani, risulta chiaro come le ritmiche siano uno dei must in questo doppio album, che si apre in modo eloquente: Scegli Me – dal retrogusto lennoniano – dà subito la cifra stilistica del nuovo lavoro, con piano, mellotron, moog e tastiere varie, lasciando intendere quanto poco le chitarre la faranno da padrone in questo doppio album; la seguente Loniterp gioca nel titolo – e nelle musiche fascinose ed emotive – coi newyorchesi Interpol, ma dura poco: la chiusa è psichedelia tout court.
Passando a Mi Coltivo, le sonorità riportano ad alcune cose tentate dal terzetto negli ultimi EP, con l’aggiunta di un drum kit molto Jesus & Mary Chain; il singolo futurista Razzi, Arpia, Inferno e Fiamme è un altro jolly, le cui fresche sonorità riecheggiano i Jefferson Airplane più delicati.
Arriva Miglioramento e il quadro è chiaro: la psichedelia imbastardita con le strutture classiche del rock è il leitmotiv di “Wow” e questo è il pezzo che – anche a livello testuale – si pone come gemma del primo disco, concluso degnamente dalle compressioni chitarristiche ipersature di Lui Gareggia; il prog ristretto – e molto italiano – di Le Scarpe Volanti; la dolcezza acustica di Castelli per Aria e la psichedelia solare e decisamente sixty di Sorriso in Spiaggia, divisa in due momenti.
Basterebbe “solo” questo per fare di “Wow” uno dei lavori dell’anno, però c’è un altro disco in cui “perdersi”: Attonito omaggia i Melvins, ma l’incontenibile creatività dei nostri si smarca dalla fascinazione e sposta le dure e implacabili geometrie proto-grunge lungo terreni inesplorati; È Solo Lunedì – così come in tutti i brani – presenta la voce allo stesso volume e sullo stesso piano degli altri strumenti, a colorarne con espressività i movimenti; Badea Blues è geniale follia: sposta l’asticella oltre, per freschezza compositiva e ventaglio di soluzioni adoperate; Nuova Luce è poesia, nelle parole quanto nelle sonorità leggiadre e nelle ispirate linee melodiche della voce; Rossella Roll Over parte in levare, ma non c’è traccia di reggae: le chitarre sono sporche e Alberto canta uno dei testi più belli del lavoro, sugli scintillanti intrecci di batteria di Luca; Canzone Ostinata è una ballata andante dal sapore folk; Sul Ciglio è veloce, breve e cattiva, mentre Letto di Mosche ricorda gli ultimi Beatles di Abbey Road: disperati e ipnotici.
La Volta è uno degli strumentali del lavoro, ma l’elettronica di questi 3 minuti e mezzo è esaltante; Lei Disse con un link testuale chiude il cerchio aperto dalla prima traccia del doppio, con una solennità sentita – di recente – solo nei Flaming Lips.
Il viaggio è finito e la band ne esce con una caratura artistica ormai consolidata a 360° gradi e a tutti i livelli: suoni, musiche, vocalità, produzione artistica, livello di scrittura. Pazienza se i soliti (e dannosamente fuori luogo) “critichini” pseudointellettuali della musica troveranno il pelo nell’uovo anche stavolta: ormai, ascoltato questo magniloquente “Wow”, nemmeno la favola di Esopo La Volpe e l’Uva basterà più a giustificarli.
(Giuseppe Ciotta)