Si riaprono le danze, di nuovo le saracinesce vere o virtuali dei negozi di dischi si aprono e dunque la domanda è: quale è il cd più interessante di questo scorcio di 2011?

Stanno per uscire i dischi di Gianna Nannini e di Cristina Donà (per dirne due di italiane) e anche il nuovo “Showroom Of Compassion” dei californiani Cake, famosi per  quella strepitosa versione di I Will Survive (ma, sentito, non pare un gran prodotto…).



Invece eccezionale è il ritorno su disco degli Over the Rhine, un duo marito-e-moglie dell’Ohio che arriva al quattordicesimo (addirittura!) prodotto musicale e offre con “The Long Surrender” un disco perfetto.

Lei, Karin Bergquist, suona la chitarra acustica, ma soprattutto canta con una voce che è davvero raro sentire per la forza interpretativa. Calda e disperata, morbida e sensuale, ironica e melodrammatica, come una Grace Slick dei nostri tempi, l’interpretazione di Karin fa da guida a tutte le canzoni, confezionate con un suono sempre originale e sorprendente, frutto dell’inventiva di Linford Detweiler, marito-polistrumentista.



Dietro il duo c’è uno che ci ha ormai abituato a lavori indimenticabili, Joe Henry, che produce al meglio della sua sensibilità e costruzione atmosferica.

Nell’insieme ne emerge che "The Long Surrender” è un lavoro di tredici canzoni che prende da subito, dall’apertura pianistica calda e intensa di In The Laugh of Recognition, con la Bergquist che canta fascinosa e morbida, persa come una donna innamorata che seduce e abbandona, tra slide guitars e percussioni che sanno di prateria, un brano seguito da Sharpest Blade, melodia che paga tanti debiti alla canzone francese e a un gusto tutto cinematografico di costruire le canzoni, mentre Rave On, è una ballata acustico-psichedelica dall’incedere viscerale, che avvolge e sinuosamente fa rabbrividire per la tensione viva che fa respirare.



Dopo tre canzoni gli Over The Rhine potrebbero già chiudere qui, tanta è la qualità e l’emozione messa in campo, ingredienti che altrove non sono previsti neppure nelle note di copertina.
Invece  solo l’inizio: Soon è un brano melò, delicatissime sono la chitarra e la voce di Oh Yeah By The Way e Undamned, mentre The Kings Knows How ha un particolarissimo andamento folk-rhyhtm’n’blues.

Una triade di titoli fantastici è composta dalla narrativa ed eccezionale Infamous Love Song  (sembra una canzone che viene dalla rivista, dal musical, come suggestionata da certi brani notturni del Tom Waits di "Nighthawks at the Dinner"), There’s a Bluebird in My Heart, un divertissment jazzato di gran classe e Days like this, ballata che parte semplice e si arricchisce di nuove immagini, di aperture, di arrangiamenti  che mostrano idee, gusto,  passione, una canzone pop, arrangiata senza l’esagerazione sovrastrutturata del pop attuale.

E i testi? La lunga amicizia con Lucinda Williams qui è significativa. Karin e Lindford raccontano vite di gente che sfida e si sfida sul limitare della vita intera. C’è una folksong che ricorda che "solo Dio può salvarci ora", così come nel 2005 avevano cantato la "preghiera dell’ubriacone" (Drunker’s Prayer) e prima ancora Jesus in New Orleans.

Siamo dalle parti dell’America autentica, quella più umana. Quella che ci piace di più. E alla fine del cammino ecco arrivare All My Favourite People, un brano corale che entra con un pianoforte honky-tonk che dà la nostalgia di New Orleans e che cresce come una filastrocca bluesy, una specie di inno di fine concerto carico di enorme feeling.

Inutile chiedersi da dove vengano questi musicisti: vengono dal nostro mondo e sono in circolazione da circa dieci anni. Come mai gente così non riesce a bucare la cappa che circonda i prodotti di nicchia?

Chissà, ma in fin dei conti non importa: siamo qui proprio per condividere la scoperta di nomi forse non di primo piano, ma che senza i quali la musica sarebbe (forse) ridotta a termini di promozione discografica.

Over the Rhine, invece, è gente che fa musica. Dietro queste canzoni magnifiche e imperdibili c’è l’ispirazione dei Cowboy Junkies, c’è l’ambiente maudit di Nick Cave, c’è la versatilità di Joni Mitchell. Ci sono suoni belli, bellissimi: scarni e puri, con pochi strumenti di gran personalità. Il contrario di un disco di cose inutili. Il contrario di un disco finto. Un disco di canzoni grandi e vere. Imperdibile.