Tra tutte le cose esplose nella Seattle del grunge, la voce e la rock-attitude di Chris Cornell è una di quelle che mi piacciono e mi inquietano di più. Vocalist dei Soundgarden, poi in solitario e recentemente di nuovo in una band di interessante presenza on-stage, gli Audioslave, Cornell ha storia, qualità e personalità di primissimo livello e il tutto si mescola nel suo ultimo lavoro, “Songbook”, un live puramente acustico che entra a far parte dei dischi che sinceramente val la pena ascoltare di questo 2011.



Inutile ricordare che Cornell non è uno che passa a va sulla scena del rock. Ha raccolto meno di Eddie Vedder e per forza di cose non è divenuto leggenda come Kurt Cobain, ma guidando i Soundgarden ha registrato due dischi da antologia come Louder Than Love e Superunknown, poi incidendo le voci del disco più mitico e off di tutto il grunge, Temple of the Dog. Mentre a partire dalla seconda metà degli anni Novanta decessi e sbandamenti mandavano in malora il suono di Seattle e i Pearl Jam rimanevano l’unica band in circolazione, Cornell si dava da fare per disintossicarsi e registrare alcuni dischi a dimostrazione che scrivere canzoni era ed è il suo mestiere, ma che la marcia in più ce la poteva mettere solo la sua partecipazione vocale, profondissima, disperata, raramente scontata.



Questo suo nuovo disco, semplice e gelido, eppure cristallino e di vibrazione umana rarissima, permettono di capire di che stoffa è fatta la musica di Cornell: la potenza della voce, la pulizia dell’estensione e la partecipazione urlante fanno di lui uno dei più grandi rock vocalist della storia – basterebbe ascoltare la versione acustica di As hope and promise fade, che apre il nuovo album – in una ipotetica classifica che a parere di chi scrive continua a vedere il signor Robert Plant come inarrivabile. Quando Chris intona I Am the Highway (dal primo disco degli Audioslave) c’è un senso di maledizione, di fuga e di disperata impotenza, che proseguono nella magnifica Can’t Change Me, dal suo primo e struggente disco da solo, Euphoria Morning, e anche nella tumultuosa Wide Awake (da Revelations degli Audioslave).



Nemmeno due citazioni nobili come Thank You (Led Zep) e Imagine (Lennon), presentate in una forma semplice e lineare, riescono a dissipare nuvole e turbini ventosi, perché anche su di loro aleggia un’atmosfera psichedelica che non permette l’assuefazione da ascolto.

Un disco acustico, che ha la stessa tensione di prodotti di quei pochi altri autori che hanno vissuto o vivono sull’orlo dell’infinito o della tragedia (Neil Young, Townes Van Zandt, Ian Curtis, Lou Reed, Nick Cave, Joe Strummer…), sensazione che si respira fisica nell’ascolto di Call me a Dog (tratto dal già citatoTemple), che restituisce un’istantanea della Seattle del grunge priva di qualsiasi colore fumettistico o di cartolina. Voce e chitarra, canzone dopo canzone, l’ex Soundgarden transita da Black Hole Sun (il più grande successo dei Soundgarden) a The Keeper, da Fell on Black Days (tratta da Superunknown) e finge di placarsi solo in alcuni episodi (Cleaning my gun e Scar on the Sky), piccoli esempi di canzone pop interpretata da un animo sofferente, totalmente privo di ironia e leggerezza e in quanto tale improponibile a un pubblico-pop che di certe angosce difficilmente saprebbe cosa farne.

Venti anni dopo, Chris Cornell si fa ascoltare come un padre, un sintetizzatore, un concentrato dei suoi tempi presenti e andati, figlio illegittimo di un rock che ormai pare incapace di esprimere altro che quella ingnobile paccottiglia di sound-televisivo da videoclip.

Cobain, Wood, Staley: chi se n’è andato non può provare a raccontare la storia della psichedelica grunge e di quella che avrebbe potuto diventare nel tempo. Parla chi è rimasto: i Pearl Jam sono ancora in circolazione e dimostrano un sound che rimarrà nel tempo; Novoselic, bassista dei Nirvana, oggi fa l’uomo politico, mentre Dave Grohl ha messo in piedi una band capace di dischi tosti (come Echoes, Silence, Patience & Grace) e canzoni strepitose (una su tutte: The Pretender).

Gli Alice in Chain sono poca cosa, mentre le reunion dei Soundgardern hanno anch’esse poco senso. Meglio Cornell da solo, che riesce a dar vita a vecchi e nuovi fantasmi. Gli stessi che ho frequentato anni fa entrando in un cinema di New York per vedere il film Kurt and Courtney. Non so se questo film-documento di Nick Broomfiel sia mai arrivato in Italia, forse solo in Dvd. Tutta la prima parte di questo documentario raccontava la vita nei sobborghi di Seattle ed Aberdeen, tra casette di legno e giardini poco curati, bidoni della spazzatura e locali notturni di bassa lega.

Si incrociavano nelle immagini le vicende di Cobain e Cornell e Cantrell (Alice in Chain) e Eddie Vedder. Il senso ribelle e desolato di quelle immagini, di quello stordirsi tra alcool e altro, forse finalmente superato (Cornell da anni vive finalmente “sobrio”), forse solo invecchiato lo si sente ancora in questo disco. Potentemente solitario, fortissimamente ruvido. Anche se non si sente una sola chitarra elettrica in tutto il disco. E neppure lontanamente il beat di una batteria o la puzza acida di un distorsore.