Dicono i Fleet Foxes, presentando la loro nuova fatica musicale: “La musica (di questo disco) prende ispirazione da quella popolare e dal folk rock che va dalla metà degli anni Sessanta ai primi Settanta. Gente come Peter Paul & Mary, John Jacob Niles, Bob Dylan, The Byrds, Neil Young, CSN, Judee Sill, Ennio Morricone, West Coast Pop Art Experimental Band, The Zombies, Brian Wilson del periodo di “Smile”, Roy Harper, Van Morrison, John Fahey, Robbie Basho, The Trees Community, Duncan Browne, the Electric Prunes, Trees, Pete Seeger e i Sagittarius”.
Mica male. Sembra un po’ una lista della spesa. Del tipo: il bravo ragazzo neo folk e neo hippie che si reca al supermarket dei dischi sotto casa e fa incetta di tutto quanto ha sentito raccontare dai fratelli maggiori o meglio, visto che da quei giorni lì sono ormai passati 40 e più anni, dal padre e dagli zii. Una lista da paura, intendiamoci (anche se non si capisce che ci faccia Ennio Morricone lì in mezzo, ma visto quanto è stato usato e abusato nel mondo del rock, da Springsteen ai Guns n’ Roses, diciamo che fai sempre un bel figurone a citarlo) con davvero il meglio del folk rock di metà anni Sessanta e primi Settanta. Con tanti nomi oscuri pure: cioè, oltre ai grandi che conoscono tutti, ad esempio Bob Dylan, Pete Seeger, Nel Young, loro ci infilano pure autori sconosciuti alle masse come Judee Sill, John Fahey o Robbie Basho. Non si tratta di snobberia, perché ascoltando il nuovo disco dei Fleet Foxes senti davvero la presenza di questi personaggi. Il fatto è che, come ogni lista della spesa, il disco suona proprio come un ammasso di svariati stili sonori, appiccicati con forbice e coltello per fare il classico copia e incolla e poco cuore. E ancor meno grandi canzoni.
I Fleet Foxes, quando esordirono nel 2008, furono un autentico caso nello scorrere placido e annoiato della scena musicale del Terzo Millennio. Spuntarono dal nulla, cioè dal Nord Ovest degli States, la terra del grunge e dei misteri di Twin Peaks, incidendo pure per la Sub Pop, la storica etichetta indie che aveva lanciato il più fragoroso e anche l’ultimo sussulto del rock degli ultimi vent’anni, i Nirvana di Kurt Cobain. Se i Nirvana erano stati l’ultima rivoluzione del rock, i Fleet Foxes segnavano invece un incredibile ritorno a casa: quarant’anni dopo l’era dei folk singer voce e chitarra acustica, del matrimonio impuro tra folk e rock, del riemergere dell’antica tradizione su cui si era costruita la Promessa americana, ecco un gruppo di allampanati capelloni che sembravano arrivare dritti dal festival di Woodstock – sapete, come quei giapponesi che cinquant’anni dopo, abbandonati su un’isola deserta, ancora si ostinavano ad aspettare l’invasione degli yankee – come se Woodstock fosse finito solo il giorno prima e non quattro decadi fa.
Ancor più incredibilmente, quel disco fatto di voci che armonizzavano come dei monaci medievali, contornate solo di chitarre acustiche, che narrava storie terrorizzanti della Repubblica Invisibile e dei suoi fantasmi (storie di giubbe rosse massacrate dai pellerossa, storie di amanti che affogavano il loro caro, indemoniati costretti ad abbandonare il paese natìo per vagare nei boschi, insomma quel mondo spaventoso e delirante tramandato dagli incubi della tradizione folk) si infilava nelle classifiche di mezzo mondo, Italia compresa. Avevano fatto breccia, come succede solo ogni dieci anni, a ogni punto di svolta della storia del rock. I Fleet Foxes guidarono una rivoluzione silenziosa che vide spuntare nei tre anni successivi decine di band di ragazzoni che invece che intripparsi di hip hop o di heavy metal, indossavano camicie da boscaioli, si facevano crescere lunghe barbe e prendevano su violino, banjo e chitarra.
Ecco Mumford and Sons, ecco Midlake, ecco Avett Brothers, ecco Felice Brothers e tanti altri. Incredibile e bellissimo. Per dare un successore al loro esordio, i Fleet Foxes, forse travolti da quel successo a cui non avevano aspirato manco loro, ci hanno messo più di tre anni. E come quasi sempre accade, se nella prima prova un artista ci mette tutto quanto di bello ha accumulato in tutta la sua vita, nella seconda già ha quasi esaurito quanto da dire. E allora via con forbice e colla. Perché a “Helplessness Blues” , questo il titolo del cd, mancano non solo le grandi canzoni che avevano arricchito l’esordio, manca anche la stessa oscura originalità Qua, ascoltando il loro cd, chiunque conosca la storia del folk revival dei 60 e del pop di quel periodo si annoierà dopo un manciata di minuti e dirà: ma io tutto questo lo conosco a memoria. Si arriverà allo scherzetto di un brano (vi lasciamo indovinare quale) che ruba paro paro da un pezzo di Bob Dylan (Fourth Time Around) il quale aveva rubato a sua volta dai Beatles (Norwegian Wood). O era stato viceversa, le leggende del rock non hanno mai chiarito questo arcano passaggio, ma certo è che qui siamo al plagio di terza mano.
Loro stessi spiegano che la genesi di questo lavoro è stata difficile e complicata: un disco rifatto almeno due volte, dopo sforzi infiniti. E questo non è mai buon segno, quando lavori a un progetto artistico in questo modo, finisci per andare fuori percorso. Perché là dove il minimalismo dell’esordio aveva affascinato, qua siamo in un’orgia di suoni che vanno dal medio orientale (Bedouin Dress) al pop psichedelico degli Zombies fino al jazz cosmico di Sun Ra (The Shrine/An Argument). Come direbbe qualcuno: che ci azzecca tutto questo? Poco o niente. Certo, rimane una certa eleganza di fondo. Il problema è che i Fleet Foxes sono adesso una delle tante band di indie rock, confusi nella massa di Arcade Fire e Decemberists vari. Quell’amore purissimo per la tradizione che faceva capolino nel disco di esordio si è perduto in mille rigagnoli di contaminazione. Che sembrano disperdersi e seccarsi nella sabbia invece di andare al grande fiume della musica.