Dai primi abbozzi gettati sul pentagramma, all’esecuzione in sala da concerto. Non capita spesso di seguire le varie fasi di una composizione: vaghe idee embrionali, veloci schizzi, appunti fugaci; la mano che scrive con matite di diversi colori, una selva di sottolineature, cancellature, ripensamenti; il brano che cresce, prende forma, si struttura; gli incontri con l’interprete, le prove, l’opera compiuta che esce alla luce. È il tragitto documentato dal recente dvd “Sophia” (Arthaus Musik), storia del Concerto “In tempus praesens” scritto da Sofia Gubaidulina, la massima compositrice russa vivente, per la violinista tedesca Anne-Sophie Mutter. La Gubaidulina apre le porte della sua officina creativa, racconta sé, mette a nudo il proprio cuore. In ottobre compirà ottant’anni. Una singolare vicenda umana, che merita d’essere raccontata.



Nata da madre slava e padre tartaro, nella regione centrale del Volga, alla periferia dell’Urss, dove l’Oriente incontra l’Occidente. Un maestro di musica ebreo gli trasmette tedesca profondità e universale sete di verità. Trascorre la giovinezza fra strade polverose, palazzoni scrostati e uguali, un vento gelido, nessun albero per chilometri. “Guardavo a lungo il cielo e le nuvole, per resistere”, confida. Proibito ogni culto, materialismo scientifico obbligatorio, vodka a fiumi per non pensare. Il deserto (spirituale) dei tartari. “Rifiuto di mettere la mia arte al servizio dello Stato”, è la sua sfida. La isolano. Per sopravvivere si dedica alle colonne sonore. Fonda un gruppo di improvvisazione collettiva, con strumenti folklorici (il bayan soprattutto) e melodie caucasiche. Nel 1980 Gidon Kremer la rivela alle platee internazionali, presentando il suo capolavoro “Offertorium”. Unica donna tra compositori, libera pensatrice nei labirinti della nomenklatura sovietica, cristiana fra atei, modernista in mezzo a reazionari, tradizionalista fra rivoluzionari. Una vita in battaglia. Eterna fanciulla, Musa primaverile che non risponde alle leggi di gravità. Figura da Grecia antica: che ricerca la dimensione mitica, che trasfigura le cose nel loro simbolo. Volto tondo schiacciato ai poli, lunghe dita, casco di capelli dotati di vita propria, guance cadenti, occhi scavati e vispi.



L’esprit de géometrie del suo spietato senso analitico confluisce nell’estasi, intesa come possessione, vitalismo travolgente, dimensione sciamanica rabbiosamente cercata. Le forme dei suoi brani esplodono dall’interno. Fibrillazione nervosa, crescente, montante, di fughe in avanti. Suoni febbricitanti. Procedimenti iterativi. Accumulazioni ossessive. Bramosia fagocitante. Una prepotente vitalità, che impedisce alla materia di divenire accademia. L’ingorgo soffocante, la congestione estrema, come punti di salvezza. Suoni accorati, imploranti, messianici. Contemplazione sonora mista a passione, simile a un cespuglio acquattato nella steppa. Echi di canti ortodossi, sussurri metafisici, cozzare di zolle. Corpo e anima che danzano in perfetto accordo. Le sue partiture si muovono a ritroso: dallo scoppio della pagina iniziale risalgono alla pace. Spartiti come icone. Speleologa dell’anima. Dalla superficie agitata dei suoi flutti orchestrali qualcosa di eccessivo si prepara. Tutto è teso, sospeso, pronto a ricevere la rivelazione, ma questa non giunge. Un’afasica grandiosità.



“L’inizio del Concerto mi ha commosso – racconta Anne-Sophie Mutter -. Sembra un Salmo che esprime la lotta con Dio, quasi un’accusa; ma poi diventa una resa, una dichiarazione d’amore”. Il filmato racconta l’amicizia che sboccia fra le due, i consigli, la trepidazione, il dietro le quinte a poche ore dalla première. I titoli di coda precedono l’esecuzione. Sofia Gubaidulina: una pietra nel mare, dove il silenzio intorno è tremendo, tutto è fermo. Lei, cocciuta, aspetta. “Io attendo. Verrà, forse già viene il suo bisbiglio”.