«Odio la “musica classica”: non la cosa in sé, bensì il termine». Ama le provocazioni Alex Ross, giornalista del “New Yorker”, forse il critico musicale più famoso al mondo. Capace di una miracolosa via intermedia fra critica e divulgazione. Fosse nato in Italia, si posizionerebbe a metà strada tra Quirino Principe e Alessandro Baricco. Il suo libro precedente, “Il resto è rumore”, tradotto in quindici lingue, ha vinto numerosi premi ed è stato finalista al Pulitzer. Promette scintille e cozzare di scudi anche “Senti questo” (Bompiani), articolata “educazione all’ascolto”, inno alla bellezza trasversale dell’arte dei suoni.
La parola “classica” esilia la musica in un limbo, avverte l’autore, la allontana dal presente. Quest’espressione è un capolavoro di pubblicità negativa, un tour de force di autodiffamazione, spiega. «Quando la gente sente la parola “classica”, pensa “morta”. E’ un’arte dai gesti grandiosi e masse imponenti, che si rivolge a folle di persone timide e tranquille. Però, paradossalmente, mentre il pubblico invecchia, gli esecutori diventano sempre più giovani. I Berliner Philarmoniker in media sono figli e nipotini dei Rolling Stones». Appelli ripetuti a favore dell’applauso, del godimento: “Nelle sale da concerto è vietato tossire, agitarsi, sussurrare: è represso ogni bisogno di esprimere piacere. E’ come una ritenzione anale di massa” (trattandosi di Alex Ross, sono parole che preoccupano non poco…).
Un centinaio di pagine per cercare di demolire il muro di separazione che divide la classica dal pop. Tuttavia lo sguardo di Ross è più sociologico che analitico. Non dice che nella classica la scrittura prevale sull’oralità, la struttura sul materiale, la scoperta del nuovo sulla vendibilità, il rapporto con la tradizione sulla semplicità immediata, la totalità espressiva sull’aspetto emozionale. I significati della musica per Ross sono “dolciumi per fanciulli: una volta cresciuti, la musica sarà di per sé sufficiente”. Il libro è suddiviso in saggi disordinati, intriganti, variopinti, al modo d’un allegro bazar: Schubert, Björk, Mozart, Cage, Verdi, John Adams, Xenakis contro Sinatra, la classica in Cina, come le registrazioni hanno cambiato la storia.
Ross si è accorto che nella musica dell’ultimo millennio troviamo spesso quattro note discendenti, al basso, simili a un singhiozzo o a un lungo sospiro. Questo nucleo, chiamato “lamento”, attraversa antichi canti russi e ungheresi, planctus medievali, spartiti di John Dowland, arie di Monteverdi, canzoni di Nina Simone, fino a “Michelle” dei Beatles, “Hotel California” degli Eagles, “Ballad of a Thin Man” di Bob Dylan, passando per Bach, “Dazed and Confused” dei Led Zeppelin, Ligeti, rock e blues a volontà, (per seguire meglio il ragionamento, sul blog di Ross, therestisnoise.com, ci sono gli mp3 montati a perfezione).
La scrittura di Ross è brillante, spalmabile e invitante come la Nutella. Passa dalla poesia (“l’idea musicale assume un bagliore d’ineluttabilità, come ciuffi di nuvole al crepuscolo”), all’onomatopea fumettistica (“l’orchestra fa un curioso rumore – rrrrrRAH! rrrrRAH! – simile al ringhio di un cane assonnato). Parla di musica seria come se fosse leggera e viceversa. Affascinante, ma senza forza, dolore, disperazione.
Sintomatica la conclusione del volume: al centro della Quarta Sinfonia di Brahms, Ross vede il nulla. Ma che faccia ha il nulla? E se invece scorgessimo un vecchio barbuto? O la nostra immagine riflessa, come nella paradisiaca visione dantesca? Ross non prende mai Dio come interlocutore. Cioè non ribadisce la natura abissale del gesto artistico (perché infinito è il cuore umano). Per lui l’arte non è un luogo sacro, inclusivo, invaso da un mare di urgenze e desideri. E’ una grande luminaria sull’Oceano, destinazione ignota. Come il frammento che fa stampare a pagina uno: “Contemplo l’inutile scia. Non allontanandomi da nessuna patria, non vado verso nessun naufragio”.