Uscirà il 27 settembre, ma grazie al buon cuore di una delle poche band libere da strategie di marketing, e che invece mettono in primo piano l’amore per la musica e il rispetto dei fan, è già stato possibile ascoltarlo, seppure per un tempo limitato di 24 ore. Stiamo parlando del nuovo disco dei Wilco, “The Whole Love”, messo in streaming sul sito ufficiale della band di Chicago nei giorni scorsi. Ed ecco le nostre impressioni.
Quando nel 1999 uscì il loro terzo lavoro, “Summerteeth”, successore di “Being There”, che già aveva fatto storcere il naso ai puristi dell’Americana, ci si iniziò a chiedere cosa diavolo stesse facendo Jeff Tweedy con i suoi Wilco. La band, dopo aver tracciato la strada di quello che fu l’alternative country con gli Uncle tupelo, dopo averli sciolti e regitrato il primo album “A.M.” , roots fino al midollo, ora ci proponeva qualcosa di enormemente diverso.
I più intransigenti lo bollarono “pop”, alcuni lo definirono “spazzatura”. Brani come I can’t stand it, A Shot in the Arm e Via Chicago daranno poi ragione a Jeff. Il suo voler andare avanti e non invischiarsi nel manierismo del country-rock darà i suoi frutti. Anche il successivo, se si vuole anche più sperimentale, “Yankee Hotel Foxtrot” traccerà un solco profondo tra il passato e il presente.
La differenza fu che in YHF, oltre alle sonorità, c’erano anche le canzoni, su tutte Jesus, Etc, brano sul quale si potrebbe scrivere un libro, poi le ormai classiche War on War e Ashes of American Flags che non escono da tempo dalle loro set list live. Da lì, almeno nelle idee, deve essere partito Jeff per questo nuovo “The Whole Love”.
Registrato nell’home studio/headquarter “The Loft” della Windy City (Chicago) e prodotto dallo stesso Jeff Tweedy, le 12 tracce cercano di nuovo di spiazzare l’ascoltatore fin dalla partenza. Il primo brano Art of Almost inizia con le tastiere che sembra di essere in un album dei Massive Attack messe su base funk e con inserzioni (a metà dei 7 minuti) orchestrali. La voce di Tweedy tiene tutto insieme fino al quinto minuto dove Nels Cline (il loro guitar man hero) entra come un’auto in una vetrina sferzando un assolo indiavolato che finisce 2 minuti dopo e con lui il con il brano.
A questo punto vale tutto. L’orecchiabile singolo I might fa ritrovare la strada a cui i Wilco ci hanno abituato iniziando e finendo in un incrocio di chitarre e controcanti che alla fine ti trovi in piedi ad applaudire. Si prosegue con Sunloathe che sembra uscita dalla penna di John Lennon, quello più intimo. È uno di quei brani che crescono a ogni ascolto, i vari strati si comprendono appieno solo dopo diversi repeat. Il testo parla di una desolante lotta con il fondo del bicchiere: “Kill my memories with a drink/Easy/2 cents/Move my misery/It’s all or nothing/I see/I don’t wanna end this fight/Goodbye”. Si prosegue con Dawned on Me che ci riporta sul territorio di “Summerteeth”.
Melodia accattivante e sound fresco, impreziosito dalle sferzate del solito Cline e sostenuto dall’organo che garantisce un crescendo finale travolgente. Il fischio di Jeff fa tanto old-style e il sing along sul ritornello viene da sé. Con Black Moon si torna all’intimismo. Brano low, acustico, sussurrato. Molto country (sarà la silde?) ci sta dietro a questo pezzo interiore fino al midollo. Ricorda l’atmosfera di Sky blue sky.
Bello il finale con il deserto nel cuore: “Without warning/Old Days reappear/Lift away/Pass the gate/Desert keeps falling/All day/The Black moon/And I’m waiting for you/Waitin forever/Waiting on you”. Si passa al power pop di Born Alone che tira dritto per la sua strada, chitarra e batteria a mille , non fa prigionieri e si infila diritto tra i brani dalle enormi possibilità dal vivo. Open Mind è una morbida ballata ruba cuori, molto classic , compiuta con maestria sia nel testo che nell’andamento che però non dà nessuno spunto o fa alzare la testa, sicuramente un episodio minore. Anche Capitol City, un rock blues spruzzato con alcuni effetti qua e là, non è particolarmente memorabile. Invece Standing On è un frizzante brano senza sbavature dal (ancora una volta) magnetico refrain, senza disdegnare delle sferzate elettriche che portano il pezzo ad essere il più sincopato del disco.
Si torna alla poesia con Rising Red Lung. Siamo nel deserto, fisico o mentale che sia non se ne esce. Quando la barca di Jeff prende queste direzioni fa venire quasi le lacrime per la bellezza che riesce a esprimere. La sua voce poi, ferita dentro e man mano arricchita dagli altri strumenti, impreziosisce uno dei brani più commoventi dell’album. Sicuramente, nel song book della band, quanto a emozioni, se la gioca con Jesus Etc.
Whole Love, la penultima del set, è un solido country-rock non troppo pretenzioso che ricorda molto le prime come cose di A.M. È un altro brano godibilissimo per melodia e ricchezza dei suoni. Country-rock allo stato puro. L’ultimo pezzo, come il primo, è un altro colpo, non allo stomaco questa volta ma al cuore. One Sunday Morning (Song For Jane Smiley’s Boyfriend) dura 12 minuti che potrebbero essere 120. Non si riesce a capire se sia stata pensata già così lunga oppure l’improvvisazione finale, da manuale, era venuta così perfetta che non la si è voluta togliere.
Il brano è folk fino al midollo, con tastiere e linea melodica azzeccatissime. La melodia sembra poter andare all’infinito senza mai annoiare. Abbandoni, perdoni difficili, c’è tutto, sembra la folk-song perfetta, ok lo è. La voce penetrante di Jeff e il gioco chitarra/pianoforte sono perfetti. La storia dietro al testo è venuta fuori grazie al compagno di Jane Smiley (scrittrice americana, “Emily Dickinson è morta” e “Dieci giorni sulle colline tra le sue opere” e vincitrice di un Pulitzer) che durante un pranzo raccontò a Jeff la storia di suo padre, religiosissimo e opprimente, tanto da segnare in modo determinante tutta la sua vita. Segnata a tal punto che quando morì ne fu sollevato.
One Sunday… è il degno finale di un album che con la voglia di non accontentarsi e di volere andare oltre i propri schemi riporta i Wilco a quello status che YHF aveva solo fatto intravedere.
Mischiare classicità ormai consolidate e nuovi elementi anche molto al di fuori dei binari fa di questo lavoro uno dei migliori della carriera della band di Chcago. Dopo i due ottimi premiati e osannati, ma quasi per nulla spiazzanti lavori (The ghost is born e The Wilco), si torna quindi a dare pugni nello stomaco e a trafiggere il cuore, il che può anche far male, ma se fatto come si deve è un piacere.
(Raffaele Concollato)