«C’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che passa la luce». Avesse scritto anche solo questo verso nella sua ultraquarantennale carriera, Leonard Cohen si sarebbe meritato un posto eterno tra le grandi voci della letteratura di ogni tempo. Nella crepa, nella ferita del cuore e nel cuore, nell’accorgersi della ferita e nell’accettazione di essa, sta infatti un livello di consapevolezza che trova paragoni nelle pagine di un Dostoyevsky o di un Thomas Eliot.



Ma Leonard Cohen è anche un cantautore legato all’epopea della musica rock: così facendo, la eleva automaticamente nel contesto della grande letteratura. Qualcuno l’ha definito un “santo secolare”. Prima poeta e romanziere, poi cantautore, il canadese Leonard Cohen è l’ebreo errante, il profeta biblico che guarda da sopra la voragine il mondo che va in frantumi proprio perché  ha preteso chiudere quella ferita del cuore ostruendola con la vacua presunzione di farcela da solo, anestetizzandone il sangue. Nessun dolore, nessun problema.



Pochi come Cohen hanno saputo descrivere con tanta lucidità, con tanto commovente realismo tutto quello che è il cuore dell’uomo, in ogni epoca e in ogni latitudine: la lotta continua tra carne e spirito, tra desiderio e peccato, tra immanenza e trascendenza. “Tutto quello che metto in una canzone” ha detto recentemente “è la mia esperienza”. Qualcun altro ha aggiunto brillantemente che l’opera di Cohen è quel punto dove Dio, il sesso e la letteratura si incontrano, cioè l’umanità stessa dell’uomo. Nelle immani battaglie relazionali che ha descritto nei suoi libri e nelle sue canzoni, battaglie destinate a risolversi in immancabili sconfitte, ha saputo cogliere il segno di qualcosa che va oltre e che rende sensate anche le sconfitte. Il canto suicida, disperato e disperante, di Famous Blue Raincoat resta lì, come una delle pagine di più terrificante solitudine che chiunque abbia mai scritto, ma allo stesso tempo quel canto stesso si risolve nella speranza dell’Halleluja dell’omonima canzone.



Tutto questo Cohen lo ha cantato con stupefacente realismo e anche un giudizio morale formidabile: l’uomo, senza Dio, si smarrisce in un labirinto senza vie di uscita. “Ho visto il futuro, baby, ed è omicidio” cantava nell’apocalittica The Future. Oggi, alla soglia degli 80 anni (è nato nel 1934) Leonard Cohen torna con uno dei dischi più belli e intensi della sua carriera. Recentemente riapparso sulle scene dopo un periodo di silenzio durato molti anni (silenzio nel vero senso della parola, dato che ha vissuto gran parte di quegli anni in un convento buddista vicino a Los Angeles) con una tournée mondiale di pochi anni fa, eccolo adesso alle prese con le sue solite “vecchie idee”, quelle a cui ha dedicato l’esistenza intera.

“Old Ideas” infatti si intitola il disco che esce oggi e che lo vede  dialogare direttamente con il divino senza più alcun muro che si possa porre tra lui e l’Alterità. L’età certo conta parecchio: “Old Ideas” è una sorta di conversazione con la morte, che come ha detto qualcuno giustamente ricorda quanto fatto anni fa da un altro straordinario ebreo della musica americana, Bob Dylan nel disco “Time Out of Mind”.

Il confronto, la meditazione, nel disco di Cohen trovano accenti particolarissimi, degni di un grande vecchio che davvero ha viaggiato, vissuto intensamente ogni giorno della sua vita: c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che passa la luce. Quella luce intravista fragilmente per tutta una vita adesso sta per esplodere nel momento finale e definitivo. La ferita del cuore, la consapevolezza del proprio limite. Cohen canta come un anziano Humphrey Bogart che si avvicina alla scena finale di Casablanca: suonala ancora, Sam. Come un crooner stagionato, come un Frank Sinatra sul viale del tramonto, ma con un’immensa consapevolezza: che quel viale porta in un posto preciso. Canzoni sussurrate con voce da grande interprete (a tratti da chansonnier) Cohen si immerge in soffuse ambientazioni jazz, gospel, folk e blues.

Non perde la sua inarrivabile ironia come nel brano che apre il disco Going Home, dove si rivolge a sé stesso: “I love to speak with Leonard he’s a sportsman and a shepherd he’s a lazy bastard living in a suit”. Aggiungendo con un ghigno di soddisfazione: “Andare a casa, senza il mio dolore, andare a casa,  magari domani, dove è meglio di quanto sia stato prima”.
Pianoforte, accompagnamento d’archi e le splendide voci femminili delle Webb Sisters (nel disco anche le sue usuali accompagnatrici vocali da tempo e cioè le straordinarie Sharon Robinson, Dana Glover, Jennifer Warnes) che lo sostengono e lo accompagnano.

La preghiera già recitata ai tempi di Halleluja (una delle canzoni più riprese da altri artisti, da Jeff Buckley ai ragazzini di X Factor) si ripete adesso in Amen, la parola definitiva. In un suo romanzo una volta aveva detto: “Vorrei dire tutto ciò che c’è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l’inizio e la fine di una frase”. E allora non c’è frase più concisa eppure capace di dire ogni cosa di questa: “amen”, così sia. Una ballata con un banjo in sottofondo e un andamento jazz, quella voce piena di gentile malizia che è stata definita “bedroom voice” capace di far impazzire le donne, ma anche con una sofferenza indicibile nell’esposizione vocale. Certo, non è da tutti cantare la propria ode funebre.

Un disco che, una volta iniziato, sarebbe sacrilegio interrompere: ecco allora Show me the Place, mostrami il posto dove sono diretto. L’andamento è quello gospel, classico, una voce ammonitrice e un violoncello di contraltare. L’obbedienza nell’accettazione. Se, quando era più giovane, cantava orgoglioso la lotta per la libertà (“Come un uccello sul filo, come un ubriaco nel coro di mezzanotte, ho provato a modo mio ad essere libero”) adesso invece si sottomette: “Fammi vedere il posto, aiutami a rotolare via la pietra, Fammi vedere il posto, non posso spostare questa cosa da sola, Fammi vedere il luogo dove la parola è diventata un uomo, Fammi vedere il luogo dove la sofferenza ha avuto inizio (…) Fammi vedere il luogo dove vuoi che il tuo schiavo vada”. In Darkness se l’inizio del brano è dato da una chitarra acustica, incalzante, ecco arrivare un riff blues insolito per Cohen, molto dylaniano. Le tastiere  Hammond si snodano  deliziosamente in lungo e in largo per un brano che sembra dire: non voglio morire, non ancora, sono ancora dentro a questa mia umanità. Sono stato preso dall’oscurità, e mi ha preso molto peggio di quanto è successo a te.

In Crazy to Love You, Cohen si permette il lusso di citare il giovane se stesso, quello dei tempi del primo disco, solo voce e una chitarra acustica strumming che riporta di schianto alla malinconia di Avalanche, di Chelsea Hotel o di So Long, Marianne. E come allora, Cohen si immerge nel dolore di un amore che non ha possibilità di sopravvivere alla promessa. Ma la guarigione è vicina: Come Healing, impostata sulla melodia di un classico inno religioso protestante, ne è la prova: “”O see the darkness yielding/ That tore the light apart/ Come healing of the reason/ Come healing of the heart….”. Venga la guarigione della ragione, venga la guarigione del cuore. C’è spazio ancora per la dolcezza e la riflessione, nella poesia minimale di Lullabye che offre conforto contro la disperazione, mentre il disco arriva alla conclusione con un classico alla Cohen, Different Sides.

Interrogato sul senso del suo lavoro alla sua età, recentemente, Leonard Cohen ha risposto in questo modo a un giornalista: “Nel mondo di oggi c’è gente che lavora in miniera, c’è gente che mastica coca tutto il giorno e vive nelle bidonville. Viviamo in un mondo dove ci sono carestie e fame, dove la gente per sopravvivere deve evitare le pallottole. È davvero difficile per me dare un valore alto a quello che faccio, scrivere canzoni. Sì, lavoro duramente: ma in paragone a cosa?”. Qualche anno fa, a Londra, durante un concerto, prima di cominciare a cantare un brano, Cohen si rivolse al pubblico in questo modo: “Siamo davvero dei privilegiati a essere qui mentre tanta parte del mondo è oppressa dall’oscurità e dal caos”. La canzone che immediatamente si mise a cantare dopo queste parole, inginocchiandosi sul palco, fu Anthem. Quella che nel ritornello dice: “C’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che passa la luce”.