Ramin Bahrami, giovane pianista iraniano, in questi giorni sta facendo rivivere nei teatri italiani la musica di un compositore di cui è ritenuto uno dei principali interpreti e a cui è legato indissolubilmente: Johann Sebastian Bach.
Tra le altre esibizioni, ha riscosso grande successo all’Auditorium di Milano una maratona bachiana dal programma più che ambizioso, che ha contemplato le Variazioni Goldberg, il Concerto Italiano, ma non solo.



La freschezza della sua interpretazione e la sua storia lo rendono degno di particolare attenzione. Nato a Teheran nel 1976 in una famiglia dove era di casa la musica, rimase folgorato a 5 anni da una delle Partite di Bach eseguita da Glenn Gould. L’avvento del regime degli Ayatollah stravolse la sua infanzia: il padre venne arrestato (e lasciato morire in carcere in circostanze misteriose) per i suoi rapporti con lo Scià e Ramin dovette scappare in Italia. Ad accoglierlo una seconda patria e un Maestro, quasi un “padre adottivo”: Piero Rattalino, con cui ottenne il Diploma al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano.



Così lo stesso Rattalino parlerà poi del talento di Bahrami: «scompone la musica di Bach e la ricompone in modi che risentono di un modello, Glenn Gould, senza veramente assomigliare al modello. Io gli ho insegnato a sopportare il morso, ma non l’ho domato; e spero che continui ad essere com’è».
Dopo il diploma, una carriera in rapida ascesa e il perfezionamento degli studi con, tra gli altri, András Schiff e Rosalyn Tureck. Ha registrato per la Decca: Concerto Italiano, L’arte della Fuga, Le Partite e Le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach.

Maestro, quali sono i ricordi più vivi della sua infanzia a Teheran e come nacque in lei la passione per la musica?



Della mia infanzia conservo solo ricordi meravigliosi. Sono cresciuto in una famiglia benestante: mia madre, iraniana di origini russo-turche, aveva tra gli antenati Nadir Shah, conosciuto in occidente come il “Napoleone persiano”, mio padre era tedesco-iraniano. Pur vivendo a contatto con una realtà da fiaba, da Mille e una notte, non ho mai amato gli sfarzi, ma piuttosto la semplicità. Andavo matto per i cartocci di noci fresche comprati nei chioschetti. Ricordo benissimo la neve a Teheran che quando scendeva ci impediva di andare a scuola, i racconti del mio autista sui re persiani e il tè bevuto dal samovar di mia nonna. Ricordo anche quando dovevamo nasconderci per la guerra, ma sembrava una cosa normale, d’altronde le prove fanno parte della vita.

La mia casa era piena di dischi e di musica. A tre anni fingevo di dirigere l’orchestra, in piedi, sul tavolo della cucina, ascoltando le sinfonie di Brahms e Beethoven dirette da Herbert von Karajan (e credendo di essere migliore di lui). Avevamo un pianoforte e suonavo melodie "a orecchio", con qualche piccola indicazione di mia madre. Più avanti mi convinsi di essere un grande compositore e a 6 anni tutte le mie "opere" contenevano episodi dell’Egmont Ouverture di Beethoven. Ricordo che mi piacevano da morire le ottave. Giocavo, insomma, a fare il "virtuoso dei bambini".

Come scoprì la musica di Johann Sebastian Bach?

Un giorno un’amica persiana tornata da Parigi mi fece ascoltare un LP di Glenn Gould che eseguiva la Toccata della Partita n. 6 di Bach. Avevo 5 anni e mezzo. Ebbi un mancamento: qualcosa di magico, inaspettato e indescrivibile, un caleidoscopio di colori fascinosi usciva da quelle note. Riascoltai all’infinito quel disco e decisi che dovevo studiare la musica di Bach. In tutti questi anni quell’emozione non l’ho più ritrovata. Questo dimostra la purezza dei bambini. Studiando razionalizziamo forse troppo, rischiando di perdere, col passare degli anni, la capacità di stupirci.

 

 

Con l’auspicio che la musica di Bach continui a stupire molte persone, potrebbe offrire ai nostri lettori qualche indicazione, a livello di forma, per facilitare un ascolto più consapevole?

Se ha stupito un bambino di 5 anni, penso possa stupire chiunque, o almeno me lo auguro. Il primo movimento della Partita n. 6 è appunto una "Toccata", cioè un pezzo in stile improvvisativo, libero. Immaginatevi una splendida improvvisazione, cioè lo sviluppo di un’idea generale, appena abbozzata, nel momento stesso dell’esecuzione (quello che in ambito jazzistico fanno ottimi musicisti come, ad esempio, Brad Mehldau).
È interessante notare come le prime battute non siano scritte in maniera ritmicamente precisa (sorge persino il dubbio che Bach abbia commesso degli errori di conto): è volutamente uno spazio lasciato alla libertà e all’intelligenza dell’esecutore.

La Toccata inizia quindi con l’esposizione di questa visione musicale [00.00 – 02.38]. Siamo in Mi minore (non a caso come nella Passione), tonalità piena di nostalgia e di sangue. Mi vengono in mente i quadri del pittore tedesco Albrecht Dürer, molto vicino come sensibilità a Bach. Il secondo episodio della Toccata è invece una fuga, rigorosa e meravigliosa. La fuga, semplificando, è una rincorsa tra le varie voci: immaginiamo una discussione tra quattro personaggi. Il personaggio principale espone un concetto [02.39] a cui gli altri rispondono [02.54; 03.15; 03.42]. Un gioco stupendo e complesso in cui ogni voce ha una sua dignità ed è necessaria. Bach è d’altra parte il più grande contrappuntista di tutti i tempi, capace cioè di costruire un’architettura perfetta in cui le melodie costruite orizzontalmente vanno perfettamente d’accordo, creando una meraviglia.

Se vogliamo, è ciò che manca oggi: la capacità di parlare e di lavorare assieme. Basterebbe ricordare che siamo tutti figli dello stesso Creatore. Ognuno di noi è importante e necessario. Dopo la fuga torniamo alla visione iniziale, ripresa però in tonalità di Si minore [07.25] (come non pensare alla Messa in Si minore, la Messa musicale cattolica più grande della storia dell’Umanità, scritta peraltro da un protestante), ma è solo di passaggio, dopodiché le modulazioni ci riconducono alla tonalità di partenza e alla conclusione del discorso [08.39 – 09.41].
In questa musica percepisco il grande rigore architettonico, ma anche la malinconia dell’uomo sulla Terra.

Nell’affrontare questo repertorio, qual è il suo rapporto con la figura di Glenn Gould?

Gould fu la rivelazione di come si suona il pianoforte e la musica di Bach. La sua totale indipendenza delle dita lo rende unico nel servizio alla polifonia. Ognuna delle sue dita ha un’individualità; non possiede due mani, ma un’orchestra di migliaia di colori. A volte le sue scelte sono arbitrarie, proprie del genio.
Alcune esecuzioni sono volutamente provocatorie nel rendere staccatissime o lentissime parti solitamente eseguite in maniera diversa. Personalmente ho imparato ad ascoltare e a imparare dai grandi del passato, cercando al tempo stesso di trovare la mia strada.

L’importante è quindi rendere personale e attuale la musica di Bach, nel pieno rispetto dell’autore?

Certamente. Suono con piacere il clavicordo, il clavicembalo e l’organo, perché rappresentano le origini di ogni pianista e non posso farne a meno.
I pianisti hanno potuto appropriarsi delle fioriture grazie alla letteratura cembalistica, dato che erano necessarie perché il suono non poteva durare a lungo. Gli studi filologici e il rispetto per la tradizione sono la linfa di partenza. Subito dopo è importante rendere attuale il messaggio. Ho dubbi seri quando si cerca di far suonare i Concerti Brandeburghesi con gli strumenti a corde di budello. Queste cose sono frutto di una filologia esasperata. L’ossessione per una certa idea di purezza è controproducente, può portare fuori strada per offrire una brutta copia di ciò che (forse) si faceva 300 anni fa.

È rimasto legato in maniera particolare alle Partite di Bach, da cui è nato l’interesse che le ha cambiato la vita?

Assolutamente sì. Le racconto un episodio emblematico. Dovevo suonare le Partite in una chiesa del Veneto. Tornavo da una tournée in Messico che mi aveva distrutto la psiche, attraversavo un bruttissimo momento, tra notti insonni e crisi di panico. A cinque minuti dal concerto volevo dare forfait. Trovai un santino di Cristo con scritto “Amami come sei”, sembrava fatta per un malato terminale, come mi sentivo io. Capii che non bisogna essere degli angeli per donarsi totalmente. Lessi questa preghiera e andai al pianoforte, fu uno dei miei concerti più belli. Tornai tra i vivi. Conservo ancora questo santino. Sono musulmano, ma profondamente attratto dalla figura di Cristo.

Programmi per il futuro e sogni ancora nel cassetto?

Ho in serbo ancora una chicca bachiana: uscirà, sempre per la Decca e in prima assoluta mondiale, l’integrale delle Sonate per cembalo, eseguite al pianoforte. Dopodiché, per capire le origini di Bach, soprattutto italiane, dedicherò un disco a Frescobaldi.
L’anno prossimo a Lipsia suonerò con estremo piacere con il grande Maestro Riccardo Chailly e l’Orchestra della Gewandhaus. Tra i miei sogni da realizzare: incidere il Clavicembalo ben temperato entro i 40 anni, un concerto alla Scala, suonare con Claudio Abbado (il nostro incontro musicale fallì tragicamente a causa di un dito rotto) e diventare un grande direttore d’orchestra (anche se Piero Rattalino me l’ha vivamente sconsigliato).

(Carlo Melato)