Non è la prima volta che è presente al Meeting di Rimini. Cosa ne pensa? Come viene percepito, secondo lei, all’esterno?
Al Meeting sono venuto tante altre volte, la prima volta presentai “Regalo di Natale”, poi ci furono altre graditissime occasioni. Penso che susciti sempre un enorme interesse, anche se c’è chi mi guarda con una certa diffidenza quando viene a sapere che vengo al Meeting. Ormai ho fatto il callo a queste cose. Penso che non ci si debba piegare a un’omologazione ideologico-culturale che ormai avvolge tutto e in cui tutti si trovano rassicurati. Preferisco starne fuori e fare delle scelte che molte volte non sono apprezzate nell’ambito di una “culturetta di provincia” che non è più cultura.
Il cortometraggio è senza dubbio uno strumento indolore e a costi contenuti attraverso cui si può acquisire un minimo di conoscenza del mezzo. In altri paesi cinematograficamente più evoluti del nostro, come
La facilità di “girare”, soprattutto in digitale, da una parte semplifica la facilità di esprimersi, dall’altra realizza una sorta di corsia di scivolo, di scorciatoia che alcuni prendono nella più totale inconsapevolezza, incoscienza e soprattutto presunzione.
Purtroppo no. Quarant’anni fa quando abbiamo iniziato a fare questo mestiere avevamo, al contrario dei giovani d’oggi, una conoscenza approfondita del passato, dei classici della storia del cinema. Aspiravamo, anche se certamente con un margine di presunzione eccessivo, a imitare in qualche modo i più grandi maestri della storia del cinema, europeo e nord-americano. In più, era per noi impossibile “verificarci” attraverso lo strumento, perché i costi del 16mm e del Super8 erano proibitivi. Solo chi era ricco di famiglia poteva pensare di realizzare una propria idea. Ci limitavamo quindi a immaginare e a scrivere molto. È soprattutto attraverso la scrittura che abbiamo avuto accesso alla bottega del cinema, frequentando poi i registi e cercando di capire da loro il più possibile.
C’è un regista che ha avuto la responsabilità, attraverso i suoi capolavori, di avermi indotto a immaginarmi e illudermi che il cinema sarebbe stato lo strumento con il quale “dirmi”: Federico Fellini. A certi suoi film debbo questa scelta professionale. A uno in particolare: “”. In questo film ho visto la certificazione più attendibile, più approfondita e accurata del potenziale di un mezzo espressivo come il cinema. Si racconta in modo esaustivo e seducente chi è il regista e quale sia il suo rapporto con il mezzo tecnico. Fellini, tra l’altro, è un mio conterraneo, probabilmente anche per questo ho avvertito più forte l’affinità con lui.
Devo molto anche a tanti altri registi, uno su tutti: Jhon Ford.
Il Jazz che ascoltavo nel primo dopoguerra italiano, alla fine degli anni Cinquanta, era molto goliardico e si rifaceva al Jazz tradizionale di New Orleans. In quel periodo ogni grande università aveva la sua Jazz Band. Era una musica considerata trasgressiva, anche se nello stesso tempo era molto solare, ballabile. È la musica che ho suonato per tanti anni.
Ho iniziato ascoltando i primi clarinettisti di New Orleans come Johnny Dodds, l’orchestra di King Oliver e Louis Armstrong. Col passare del tempo, da ascoltatore, quel tipo di musica non mi è bastata più e ho fatto un percorso in avanti andando a scoprire le varie epoche del jazz fino ad arrivare al bepop e alla musica più straordinaria e alta secondo me rappresentata da Charlie Parker. Il percorso che ha portato al free jazz e mi ha fatto disinnamorare. Ciò che è accaduto dopo era così poco emozionante, dissonante e comunicava così poco per cui non mi è più interessato. Sono tutt’ora ascoltatore quotidiano e attentissimo di forme jazzistiche che si chiudono tutte con gli anni Cinquanta. Per quanto riguarda il jazz di oggi, in Italia abbiamo dei jazzisti in grado di suonare al livello degli americani, cosa che quando ero ragazzo io non accadeva. Oggi i giovani nascono (è uno dei pochi meriti della globalizzazione) con una predisposizione musicale che non avevamo.
Ho ricordi bellissimi. L’esperienza gioiosa di un ragazzo di vent’anni che si trova a girare l’Europa, suonando la musica che ama con grandissimi musicisti e arrivando a vincere la coppa della migliore orchestra Dixieland europea. Ero totalmente deresponsabilizzato non c’erano problemi familiari, neanche economici, forse sono stati gli anni più belli della mia vita e “Jazz Band” è il riassunto di quella storia.
Come ha scoperto che la sua strada era però un’altra?
Suonavo con musicisti che mi dimostravano quotidianamente che il loro talento era esplicito e il mio non lo era. Questo mi ha messo all’angolo. Erano musicisti straordinari come Hengel Gualdi, Lucio Dalla, Gianni Sanjust, che invidiavo terribilmente, senza riuscire però a emularli. Francamente, a distanza di anni, la cicatrice è ancora aperta e ancora oggi mi definirei un musicista fallito, per il fatto di non essermi riuscito ad esprimere attraverso la musica. Nella ricerca di un altro strumento attraverso il quale parlare di me ho incontrato il cinema e me ne sono innamorato. Grazie a Dio è andato a sostituire la musica, anche se non totalmente. Per questo la musica è sicuramente un elemento non trascurabile del mio cinema.
Il Meeting di Rimini di quest’anno ha come titolo “O Protagonisti o nessuno”, un tema molto vicino ai suoi film. I suoi “protagonisti” sono spesso persone che il mondo non considera come tali o mette in un angolo. Chi è il protagonista secondo lei?
I personaggi verso i quali dimostro più attenzione sono appunto di questo tipo. Quelli che in qualche modo hanno alle spalle vicende più clamorose sono già stati celebrati da altri, in altri contesti, cinematografici, letterari, o attraverso i media. Non credo che abbiano bisogno dei miei film. Io, tra l’altro, parlo del mondo che conosco e che mi è più vicino, raccontando le persone più semplici e appartate, che svolgono le attività più insignificanti, umili, meno appaganti, ma che sono portatori sani di un grandissimo sogno. Penso che il sogno sia legittimo e non si possa negare a nessuno. Con questo tipo di essere umano, di protagonista, ho una grande confidenza, avverto una grande vicinanza e affinità. Per questo lo ripropongo in vari contesti, anche se parlo sempre allo stesso essere umano.
Dal dolore per il suo desiderio di fare il musicista che non trovava risposte è riuscito però a capire per cosa era nato. La passione e l’impegno secondo lei quindi non bastano per essere protagonisti?
La differenza che c’è tra passione e talento è un tema che mi affascina tantissimo e che mi preoccupa perché c’è una grandissima confusione, soprattutto in ambito giovanile.
C’è chi pensa che sia sufficiente amare molto una professione per essere nati per svolgerla. L’esempio lampante del fatto che questo non è vero sono io: credevo che fosse sufficiente amare alla follia la musica per diventare un grande musicista, ma non era così.
Su questo ho tenuto degli incontri. Dico sempre ad ognuna delle persone che mi ascoltano in sala che ognuna di loro è la “prescelta”. Quest’idea deve essere radicata in ciascuno, senza costituire motivo di vanto, piuttosto di responsabilità. Il prescelto è ricettore di un talento che gli è stato infuso. Questo talento però non si può lasciare nel campo, bisogna andarlo a cercare, farlo fruttare. Attraverso ciò che uno fa (e può essere qualunque mestiere del mondo) ciascuno deve dire chi è.
Non possiamo uscire dalla nostra vita, lasciare che le luci si spengano e sparire senza aver lasciato traccia di noi stessi.
Il mondo purtroppo ci educa a questo tipo di rassegnazione e di pigrizia, data dall’omologazione. Se uno evita l’omologazione, va per la sua strada e affronta qualche rischio, scopre la sua identità.
(Carlo Melato)