Ci sono musicisti eccezionali che forse non vengono fermati per strada o in metrò per un autografo, ma hanno una storia da raccontare, fatta di incontri, sogni, tentativi, ripensamenti, jam session e concerti nei Teatri e nei locali di tutto il mondo. Stefano Bagnoli (in arte “brushman”), uno dei più grandi batteristi jazz italiani, ci ha raccontato la sua.




Com’è nata la tua passione per la musica jazz e per la batteria?

In maniera del tutto naturale. Mio padre e mio zio sono musicisti e, nella Milano dei primi anni Cinquanta, avevano fondato una delle prime tre Jazz band italiane.
Il jazz è sempre stato di casa, attraverso i dischi e i racconti. Mi sono incuriosito e come tutti i batteristi senza una batteria a disposizione ho iniziato con le pentole e i mestoli di legno.
Il mio primo approccio a uno strumento vero è avvenuto con il contrabbasso di mio padre, con cui provavo ad accompagnare i dischi. Era, se vogliamo, un primo approccio al ritmo e all’armonia. L’interesse per la batteria era già molto forte e tutto iniziò quando mio padre mi regalò un rullante meraviglioso (che ho ancora) e due spazzole.



A proposito… tutti ti conoscono come “brushman” o il “re delle spazzole”, come ti sei guadagnato questo titolo?

Coincidenze e destino: abitando con i miei in un piccolo appartamento a Milano le bacchette avrebbero creato dei problemi, perciò iniziai a suonare sui dischi con quelle spazzole che hanno tracciato il percorso della mia vita! In seguito iniziai a studiare con Carlo Sola, batterista della Rai di Milano, tra le altre cose, un grandissimo spazzolista.
Verso la fine degli anni Novanta due colleghi, e amici carissimi, come Ellade Bandini e Christian Meyer mi stimolarono ad approfondire questa mia qualità, anche a livello didattico, per non sprecare questo particolare aspetto della mia personalità batteristica. Grazie al loro consiglio ho scritto un metodo, di cui verrà pubblicato a breve il secondo volume e ho lavorato a un dvd che uscirà quest’anno.
La prima persona a cui devo il soprannome “brushman”, che ha resistito nel tempo, è stata la grande cantante americana Adrienne West, che a un certo punto del tour iniziò ad annunciarmi così nei concerti.



Nascere in un ambiente così orientato al jazz tradizionale e partire con le spazzole ti ha in qualche modo segnato la strada?

Assolutamente. I primi vent’anni della mia carriera sono stati molto legati al jazz tradizionale. L’uso delle spazzole era così naturale per me che non gli davo molto peso. In Italia invece iniziava a essere considerato un accessorio legato solamente al Jazz classico e a cadere in disuso.
La realtà, tra l’altro, smentiva questo luogo comune: grandi batteristi come Steve Gadd avevano già dimostrato che si possono usare sia quando si suona funky, latino o Rhythm and Blues. La spazzola si è rinnovata e ha avuto un’evoluzione, come del resto la batteria stessa.
Penso comunque di non aver inventato niente, visto che i grandi spazzolisti ci sono sempre stati, forse in Italia ho aiutato questo strumento indipendente delle bacchette a risorgere.

Se dovessi fare alcuni nomi di grandi spazzolisti a livello internazionale?

Una condizione per cui un batterista, al di là del proprio stile, può essere un bravo spazzolista è la conoscenza della tradizione e della spazzola stessa attraverso la storia del jazz e della batteria.
Lewis Nash, ad esempio, è un grandissimo batterista di un jazz moderno, creativo, ma denota un grande bagaglio di esperienza legato al jazz tradizionale e quindi alle spazzole.

Nel tempo e nelle varie fasi della tua maturazione quali sono stati i riferimenti stilistici?

Avere in casa dischi di jazz tradizionale ha significato poter partire dalla fonte: Louis Armstrong. Per tutto il pianeta è l’emblema del jazz, per me è il musicista ancora in grado di farmi venire la pelle d’oca, anche se ora suono tutt’altro che jazz tradizionale.
Se devo fare dei nomi metto al primo posto Louie Bellson. Grande virtuoso da big band, inventore della doppia cassa, spazzolista eccezionale, insieme a Buddy Rich e Gene Krupa il terzo fenomeno dell’era dello swing.
Poi Shelly Manne, uno dei più grandi in assoluto per quanto riguarda le spazzole.
Per il jazz più moderno Roy Haynes, mentre per quanto riguarda il jazz più creativo mi sono innamorato anni fa di Daniel Humair.
L’ultimo idolo nonchè caposcuola me lo fece scoprire parecchio tempo fa il guru dei batteristi italiani, Ellade Bandini, facendomi ascoltare Steve Gadd in un disco di Chick Corea.

Prima parlavamo dei primi vent’anni di jazz tradizionale. Cosa è successo dopo?

A un certo punto della carriera ho “cambiato pelle”. Intorno al 2000 ho rivoluzionato la mia attività musicale, che fino ad allora era legata alle Big Band, al Dixieland, allo Swing e al Bebop.
L’ambiente del jazz tradizionale cominciava a starmi stretto, iniziavo ad avvertire il peso della routine e la vitalità, che questo mestiere strambo deve avere costantemente, iniziava a spegnersi.
Ritengo, a distanza di anni, di aver fatto con molti rischi la scelta più importante della mia vita.

Questa metamorfosi quali incontri ti ha riservato?

Oltre a questa decisione personale un fatto molto triste mi avviò in questa strada. Il bravissimo batterista, nonché grande amico, Giampiero Prina, iniziò a stare male a causa di un tumore, di cui morì nel 2002. Mi chiese di sostituirlo nei suoi gruppi più moderni: il trio con Michael Rosen e Paolino Dalla Porta, il quintetto con Riccardo Fioravanti… In un certo senso mi passò il testimone nei suoi progetti.
Poi l’esperienza nel trio di Antonio Faraò, un musicista strepitoso che mi ha aperto orecchie e cervello su un modo di suonare diverso, più aperto.
Negli anni successivi alcuni dischi con Dado Moroni, Andrea Pozza, cominciavano ad arrivare ai manager.
Uno di questi arrivò alle orecchie di Mario Guidi, primo e importante manager del prodigioso Francesco Cafiso. Da allora sono nel suo quartetto.
L’incontro con il gruppo di Paolo Fresu è avvenuto sostituendo Roberto Gatto nel gruppo “Italian Trumpet Summit”; successivamente sono entrato stabilmente nel “Devil Quartet” con il quale da quattro anni prosegue una strepitosa collaborazione umana e artistica. Inutile fare sviolinate su Paolo Fresu, che tutti conoscono, ma senz’altro è un musicista fantastico, un vulcano di idee, e un vero leader. Chiede molto dai suoi musicisti in termini di input e idee. Con i suoi progetti c’è anche molta varietà: si passa da l brano swing alla ballad pop al free… world music totale! la proposta musicale ti impegna ogni secondo, non puoi mollare mai le redini e ogni sera succede qualcosa di nuovo.

Parliamo di due incredibili musicisti con cui suoni stabilmente, lontani per ragioni anagrafiche: l’astro nascente del sassofono contralto Francesco Cafiso, che è stato invitato addirittura all’insediamento di Barack Obama e Renato Sellani, lo “zio” di tutti i jazzisti italiani che oggi compie 83 anni?

Cafiso è un talento sovrannaturale che all’età di otto anni suonava come Charlie Parker. Ha sfruttato il suo talento con la testa sulle spalle e con l’aiuto di due genitori splendidi, che l’hanno salvaguardato. Il successo meritatissimo non gli ha dato alla testa. È un musicista consapevole di aver già assimilato la tradizione, alla ricerca della sua strada in continua evoluzione.
Renato Sellani è il poeta per eccellenza. Con lui suono da oltre vent’anni, alternandomi al mio amico Massimo Manzi. Ogni nota che decide di suonare racchiude un bagaglio di magia e di poesia.
Dico sempre ai miei allievi che sono stato più fortunato di loro nel poter suonare in gioventù con quei musicisti che, come lui, si sono inventati il jazz in Italia. Questa sera festeggeremo con il trio e diversi ospiti il suo compleanno e i 60 anni di carriera alla Salumeria della Musica di MIlano.

A proposito di allievi, da insegnante come trovi  la nuova generazione di batteristi?

L’insegnamento per me è fondamentale come suonare live: non mi annoio mai grazie ai miei studenti e agli input che mi danno.
Rispetto a quando ho iniziato io, vedo di buonissimo occhio la novità rappresentata dal fatto che i Conservatori hanno finalmente aperto le porte al Jazz, riconoscendone la dignità.
La mia generazione non era sicuramente bombardata di informazioni come questa. In mezza giornata un allievo può, grazie a internet, crearsi una discografia immensa e una biblioteca di metodi incredibile, tempo fa ci sarebbero voluti degli anni. Questo è positivo e fa comodo a tutti. Quello che manca adesso è un po’ di poesia. La tecnica ci deve essere sempre, ma parallelamente bisogna coltivare tutt’altro… scoprire, giorno per giorno, che quelle quattro misure si possono suonare in cento modi diversi e con cento risultati sonori differenti.
Il jazz è anche questo: “scoprire” sulla propria pelle, al di là dei manuali.


(Carlo Melato)