L’occasione per incontrare Bebo Ferra mi si è offerta il 19 settembre al Blue Note di Milano dove si esibisce in duo con una delle più ricercate pianiste nostrane: Rita Marcotulli.
Il duo è una formazione amata da Bebo forse perché corrisponde a una sua esigenza di “andare al nocciolo” di quanto accade nella musica: obbliga a dare vita a un dialogo vero tra i musicisti. Non può prevalere l’uno o l’altro degli interpreti. Deve per forza esserci un grande rispetto e un’affinità tra chi suona – magari più latente che manifesta – e non può mancare un’attenzione a ciò che accade nella disponibilità a intraprendere sentieri diversi.
L’arte del duo si può considerare come una metafora di un possibile dialogo tra due persone, ma in realtà non è più di tanto una metafora. Per crederci bisognava essere presenti la sera del concerto, che ha proposto un dialogo musicale, amicale e teso.
Le composizioni di entrambi i musicisti, melodiche ed estremamente raffinate, all’interno di strutture molto complesse, hanno offerto un terreno ricchissimo di spunti, di ricerche e di confronti grazie a una ricettività sensibilissima dei musicisti nel cogliere tutte quelle idee che nascono nell’improvvisazione. Niente sbavature. Momenti intensi e un pubblico che ha saputo cogliere la dimensione comunicativa e complessa della musica della serata.
Bebo a seguito del concerto è stato disponibile per alcune domande.
Una delle domande d’obbligo è proprio la seguente: come mai questo duo? Com’è nato?
L’occasione è stata il disco, Luar (di prossima uscita presso l’etichetta Egea a cui partecipano oltre ai due Marco Decimo al violoncello e Raffaello Pareti al contrabbasso). Dal quartetto è nata l’idea di suonare insieme. Rita ha dimostrato un’affezione per la mia musica veramente grande e da lì abbiamo pensato di voler fare qualcosa in duo. La mia musica le piaceva veramente tantissimo. E le piace tantissimo suonarla, spesso mi dice infatti che vorrebbe suonare solo i pezzi miei [ride]. Ma io le ho detto «facciamo un duo con la musica mia e la musica tua!».
Un aspetto molto bello della tua musica e del vostro suonare insieme è proprio quello che definirei un “aspetto umano”, quasi affettivo del relazionarsi sia tra voi che con il pubblico. Tu come lo descriveresti?
Una cosa che ha Rita – e che cerco anch’io – è che entrambi non ci poniamo dei “limiti” entro cui muovere la musica, né alcuno steccato o barriera che voglia semplicemente affrontare un certo ambito o un certo contesto. Rita è aperta a tutto. Questo fatto di “dover essere aperti” spesso viene ripetuto ossessivamente nel mondo del jazz, ma in realtà ognuno alla fine persegue il suo “progetto”, oppure pone steccati per stare in un ambito o in un altro.
Lei è una delle poche persone che è veramente aperta. Direi che è proprio “poco italiana” da questo punto di vista.
In che senso dici che è “poco italiana”?
In Italia c’è un clima per cui ognuno deve essere “ben etichettato” o “etichettabile”: se uno fa un certo tipo di musica non ne può fare un’altra, se è in un ambito non può stare in un altro e via dicendo. Poi in realtà queste persone sono le stesse che affermano di essere aperti a ogni forma di musica. Rita invece è così: può fare una canzone “pop”, come nel duo con Andy Sheppard e non avere alcun tipo di problema “puristico”. Poi suona la canzone “pop” in maniera divina e lo fa con una profondità che è unica, mettendoci la stessa intensità che profonderebbe in un pezzo free o improvvisato. Tanti altri musicisti che mi capita di incontrare paventano questo atteggiamento, ma non lo sono di sostanza.
Questo atteggiamento è di entrambi e vedo rispecchiata in lei questa sincerità. È la musica che ti porta, non la tua ideologia o “ciò che tu vuoi fare”. È un modo molto internazionale di fare musica. Lei più di me ha questa esperienza internazionale, ma la indole è la stessa. Ecco io ho incontrato in lei una persona con cui condividere questa esigenza.
Direi che non solo è un modo di fare musica semplicemente “internazionale”, ma molto rispettoso dell’arte stessa.
La percezione, quando vi ho ascoltati, è stata quella di sentire non dei semplici musicisti, ma delle “persone” che stavano facendo musica, che tessevano un dialogo tra di loro e con il pubblico. Non siete lì per offrire uno sfoggio, o voler dimostrare qualcosa, ma con il desiderio di comunicare la propria umanità, attraverso un’espressione artitistica totalmente umana. La cosa bella del concerto è stata proprio questa simbiosi di intenti.
Con un altro mio duo storico (quello con Paolino dalla Porta n.d.r.) ho sviluppato un’empatia di un altro tipo, frutto di una lunga collaborazione che, nel corso degli anni, ha permesso che si creasse un’alchimia unica. Con Paolo abbiamo sperimentato molto, eppure con lui posso fare alcune cose e altre no.
Pur ritenendo che il progetto con lui sia a un livello più alto, anche perché è da ormai dieci anni che suoniamo insieme, con Rita c’è una somiglianza nell’intendere la musica molto profonda. Con Paolo abbiamo creato delle alchimie uniche, abbiamo fatto un sacco di ricerche proprio mentre suoniamo che, pur nella diversità di vedute (lui punta moto sull’improvvisazione libera), mi hanno veramente molto appagato. Con Rita invece mi sembra di scoprire, ed è una scoperta che è ancora in itinere e che deve approfondirsi, una relazione che poggia più su delle affinità che su delle differenze. L’opposto di quanto accade con Paolino. Sono due modi diversi d concepire la musica in duo.
Che direi è anche la grande forza e fascino del jazz, cioè quella di poter creare delle combinazioni musicali infinite grazie alle interazioni tra i diversi musicisti. Direi che ha giocato molto il tuo sforzo compositivo di quest’ultimo periodo nel forgiare lo spirito di questo duo, o sbaglio?
Dobbiamo ancora trovare un dimensione, abbiamo fatto ancora pochi concerti insieme, è una cosa che stiamo proprio costruendo.
Ci sono state delle formazioni in duo che consideri come punti di riferimento nella storia del jazz?
Sinceramente no, l’unico che mi viene in mente è quello tra Jim Hall e Bill Evans: i loro due dischi sono dei capolavori e mi hanno per forza segnato, ma sono più dei riferimenti che stanno nel bagaglio delle tue esperienze che dei referenti diretti della nostra musica. Mi è piaciuto molto anche il duo Bill Frisell e Fred Hersh. Hanno inciso un disco molto “pop”, ma per come l’hanno suonato supera, come dicevamo prima, ogni tipo di etichettamento.
Dico “pop” nel senso che i brani seguono tutte la forma canzone. Quindi non è particolarmente ardito da un punto di vista formale.
Potremmo anche considerare pop, ovvero popular, un tipo di musica in un senso più profondo, cioè una musica che è fondata su una dimensione comunicativa, come un terreno di condivisione tra chi suona e chi partecipa del tale evento sonoro?
Forse in questo senso il termine “pop” ha una profonda radice, cioè di essere popolare. Questo non vuol dire – come spesso accade oggi – che ci si abbassa le braghe per fare il pezzo volutamente ammiccante per andare incontro alla gente.
C’è chi d’altra parte pensa invece a un approccio più “intellettuale” e, facendo così, si chiude in una gabbia. In realtà i due aspetti non sono così antitetici, perche si può cercare di fare un pezzo popular che poi viene percepito come intellettuale o viceversa. Ecco in questo senso ritorna ciò che dicevamo all’inizio: noi non ci poniamo questi problemi, l’approccio non è questo, non vogliamo applicare degli schemi precostituiti. La nostra natura è un altra. Facciamo accadere la musica.
Certo, questo è un discorso generale perché se vuoi fare una musica intellettuale per arrivare a un pubblico di elitè, sicuramente non riesci ad arrivare neanche lì.
Non sono i progetti a tavolino che fanno successo, in un senso profondo del termine. Così se vuoi fare musica fruibile – ma da ruffiano! -, arrivi solo a un certo livello superficiale, cioè alle persone ingenue tagliandoti fuori tutto il pubblico che anela ad una maggiore profondità. Quando il tuo atteggiamento è sincero è un’altra cosa.
Rifaccio l’esempio di Bill Frisell: lui è un musicista che fa musica popular mantenendo una certa profondità di pensiero e di sintesi di linguaggio, ed è godibile sia dalla persona non avvezza a quel tipo di linguaggio e sia da quello che cerca qualcosa di sofisticato!
Direi che è la cifra di tutti i grandi artisti.
I veri grandi sono così. Gli altri no. Hanno questa cosa assoluta: sono aderenti a se stessi.
Mi sembra molto bella questa formula che hai appena detto.
Frisell è sofisticato, ma con una leggibilità a vari livelli. Questo aspetto per me è infatti fondamentale ed è un punto di riferimento costante per la mia musica. Così per la musica di Rita e per la mia: è sofisticata e godibile allo stesso tempo. È frutto di una grande ricerca ritmica, armonica e spesso sembra più facile di quella che è! Tante mie scelte armoniche e ritmiche quando poi devono essere suonate, si scopre che non sono per niente canoniche o scontate o “semplici” da eseguire. Concordo in pieno.
Ho in mente la ritmica di un tuo brano Ehia…
Un percussionista francese non riusciva nel modo più assoluto a entrare nel ritmo, un sacco di musicisti non lo capivano!
Eppure è un pezzo tra i più amati per la leggibilità e cantabilità.
Vorrei ritornare a quanto detto sulla questione della musica popolare. In realtà nella tua musica c’è molta tradizione popolare. Una cosa tipica della tua musica è stata il recupero della tradizione mediterranea e in particolare della tua terra, la Sardegna. Come giudichi questa tuo affondo nelle radici sarde?
Sono stato molto dentro questo atteggiamento, che avrà sicuramente altri sviluppi. Anche in questo caso però quando ho iniziato a vedere che il recupero di certe sonorità mi stava ingabbiando, e mi sentivo etichettato come “chitarrista mediterraneo”, ho sentito il prurito!
Non sono le etichette che mi interessano, non mi piacciono gli schemi. In questo senso non voglio stare dentro nessuna cosa. È uscita questa musica senza un progetto costituito, senza che io la cercassi, è venuta fuori quasi naturalmente e io le ho dato spazio.
Per ritornare a quanto detto prima, non è stata una cosa che ho cercato volutamente perché magari in quel momento andava la musica etnica, o perché mi avrebbe aperto delle porte musicali. La Sardegna ha una tradizione musicale fortissima e inconsciamente ci devi fare i conti. Per me è stato una ricchezza venire da lì, la musica sarda ha delle peculiarità uniche nel mondo. Venendo da quell’isola certi suoni, musiche, atmosfere – anche volendosi turare le orecchie – fanno parte della mia persona.
Come sintetizzeresti questa ricchezza, e in qual aspetti è presente nella tua musica?
Innanzitutto un certo tipo di suono. La musica sarda ha un suono tutto suo.
Io per esempio sento sempre questa dimensione della nota fissa. Un giorno Francesco Sotgiu (musicista sardo anch’esso) mi ha detto, parlando dei miei brani, che, anche se si muovono armonicamente da una parte all’altra, spesso hanno questa cosa della “nota fissa”. Quasi ipnotica. Ed è una cosa che mi capita spesso di ricercare nei miei pezzi.
Basta pensare ai pedali tipici della musica etnica vocale sarda. Come se cercassi un qualcosa di comune tra accordi lontani, come facevano Debussy e Ravel che enarmonicamente cambiavano certi centri tonali. Ma io cerco sempre, inconsciamente, questo punto comune. Un orecchio colto riesce a cogliere queste regioni che invece di solito vengono lette come delle modulazioni lontane. È un allargamento della tonalità. Poi la musica sarda ha un bagaglio melodico e ritmico molto particolare, originale e soprattutto ricchissimo.
Tradizione, scrittura, radici popolari. In realtà tutto questo si muove in un ambito – il jazz – che privilegia, forse, la dimensione improvvisativa. Qual è il rapporto che intercorre tra improvvisazione e scrittura nella tua esperienza di musicista jazz?
Oggi sto cercando di farle confluire più di prima. In realtà l’approccio all’improvvisazione è una mia improvvisazione a un certo tipo di linguaggio; sto cercando in questo senso di legare i due aspetti proprio per non pensare all’improvvisazione nella maniera classica jazzistica, come se in realtà stessimo parlando di flussi musicali. Anche Jarrett ne parla. Magari dei pezzi hanno dei flussi al proprio interno e l’improvvisazione cerca di starci dentro, senza pensare in maniera troppo “jazzistica” a scale, accordi, melodia.
Questa immagine del flusso musicale corrisponde a una concezione dell’improvvisazione più aperta e meno schematica, rispetto ad alcuni clichè tipici del jazz.
E invece, rispetto all’interazione di cui parlavamo prima, c’è qualcuno con cui ti piacerebbe suonare al momento attuale?
In realtà io cerco di essere molto realistico. Ma uno con cui mi piacerebbe suonare è Joey Barron, anche perché è probabile che possa accadere! Cerco di desiderare qualcosa di fattibile! Anche con Pavel Danielsson o John Taylor, persone con cui potrei suonare e trovare un linguaggio comune.
Un ultima domanda: come stai sviluppando l’approccio invece alla chitarra elettrica e alla musica più contaminata?
È in fase di gestazione, e vorrei fare qualcosa in trio sviluppando alcune idee di Vision (album con Fabrizio Sferra alla batteria e Rosario Bonaccorso al contrabbasso) con pezzi più semplici “meno scritti” lavorando molto sul piano sonoro e dentro strutture più semplici e coloristiche. Vorrei scriver musica più semplice e più libera.
Sto elaborando questo e ho avuto dei lampi sonori in testa, perché in quel nel disco c’è qualcosa di incompiuto riguardo al suono e mi piacerebbe lavorarci sopra molto di più. Una cosa ben diversa dal disco Luar, dove c’è molta struttura e arrangiamento.
(Michael Alberga)
Per chi volesse approfondire la conoscenza di questo grande jazzista italiano, oltre a visitare il sito (www.beboferra.com) e il dominio su MySpace, ecco una breve discografia:
Isole con Paul McCandless e Paolino dalla Porta (Egea)
Mari Pintau con Javier Girotto, Paolo Dani, Paolino dalla Porta, (Egea)
Bagattelle con Bebo Ferra e Paolino dalla Porta (Splasch)
Aria con Bebo Ferra e Paolino dalla Porta (Obliq Sound)
Visions Con Bebo Ferra, Rosario Bonaccorso, Fabrizio Sferra (Abeat Records)