È stato l’evento dell’anno. Anzi, uno dei grandi eventi di sempre della storia della musica popolare.
Ben pochi avrebbero scommesso, nel corso dei lunghi 15 anni della sua assenza dai palcoscenici, che un giorno lo avremmo potuto rivedere di nuovo in azione (l’ultima volta che era stato in tour era il lontano 1993).
Invece Leonard Cohen è tornato, con un lungo tour mondiale cominciato la scorsa primavera dalla natia Canada e approdato al prestigioso Arcimboldi di Milano ieri sera.
Settantaquattro anni compiuti giusti un mese fa e una classe infinita.
Lui e la sua band formidabile sembravano, con quel look, un gruppo di mafiosi degli anni Quaranta, o dei giocatori d’azzardo sulle rive del Mississippi. Eleganza non solo formale, non solo musicale, ma anche nel modo di porsi: ogni volta che un musicista prendeva un assolo, Cohen si inchinava davanti a lui come a ringraziarlo per aver reso le sue canzoni migliori, o sfilandosi il Borsalino di testa a ogni scroscio di applausi.
Cohen non è rock, non è jazz, non è folk. È tutto questo insieme e di più, l’unico autentico poeta della musica, con buona pace delle tante candidature al premio Nobel per la letteratura che ogni anno piovono su Bob Dylan.
Lui in fondo prima di darsi alla canzone era veramente un poeta, uno dei migliori del suo paese.
Un recensore inglese, dopo averlo visto in concerto a Londra qualche mese fa, ha scritto che quella sera “Dio era in teatro” e non si riferiva all’artista, ma piuttosto alla sua capacità di evocare, con le sue canzoni, con la sua voce profonda, ovviamente invecchiata ma ancora intensa, il grido del cuore dell’uomo, il Mistero, l’Infinito.
Abbiamo chiesto dei segni e i segni ci sono stati mandati, suonate le campane che ancora possono suonare, dimentica l’offerta perfetta, c’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che passa la luce ha cantato in Anthem, la dichiarazione palese che è attraverso la ferita della nostra umana incapacità di risponderci da soli che passa l’apertura all’infinito.
Si è inginocchiato durante Hallelujah, canto liberatorio dai sapori gospel, affermazione di un Altro. E durante la commovente So Long Marinane ha anche tirato fuori dalla tasca della giacca un rosario con croce d’argento, l’ha stretto forte nel pugno, l’ha mostrato al pubblico.
È sembrato, questo concerto, tre ore di durata e una carrellata di alcune delle più belle canzoni del Novecento, l’addio di una generazione, di un modo di fare musica che non esiste più, la fine di un grido, quello del rock.
“Dignità”, commovente dignità è allora la parola che viene in mente dopo aver assistito allo spettacolo che questo anziano e magrissimo signore ha rilasciato: da solo, stretto alla sua chitarra, declamando pagine antiche come Chelsea Hotel, Famous Blue Raincoat o Suzanne; accompagnato da questi formidabili musicisti e queste bravissime coriste che sembravano uscire, con il loro elegante tocco jazzy, da un club di Harlem, in brani come Dance me to the end of love, First We Take Manhattan, Then We Take Berlin o ancora la sua “lettera d’amore agli Stati Uniti”, Democracy, da parte di questo poeta canadese di Montreal.
Riportando tutto là, nella torre della canzone, The Tower of Song, che appartiene solo ai veri artisti e al cuore di Dio. Perché, come ha cantato in There Ain’t No Cure For Love, davvero non c’è rimedio all’amore.