Introdotti dal solito saccente e prolisso maestro di cerimonie, gli Yes, nel loro concerto al Tendastrisce di Roma, hanno rischiato, per il rotto della cuffia, di essere risucchiati in quella sorta di “notte dei morti viventi” da qualche anno in scena a Roma. Solitamente partecipa a queste serate un pubblico di attempati appassionati del cosiddetto “genere progressive” piuttosto di bocca buona, pronti a sbavare anche per la più scadente band, purchè ben stagionata. È questo, purtroppo, lo scenario musicale romano, vecchie glorie, qualche gruppo di raccomandati, protetti dalle varie confraternite che gestiscono la musica rock a Roma, nessuno spazio a gruppi emergenti (il più delle volte nemmeno pagati). Poi ci si lamenta della mancanza di validi gruppi rock e della stasi del mercato discografico…



Dopo questa doverosa introduzione il vostro recensore si è ripromesso di non andare più ad ascoltare concerti del genere per amore, come in questo caso, di musicisti che definire straordinari è troppo poco.
Gli Yes sono stati insieme ai leggendari King Crimson (i capostipiti) e ai primi Genesis, la più alta espressione del cosiddetto rock romantico (e/o progressive) e il sottoscritto, li considera tra i più grandi gruppi della storia del rock.



Il loro stile prevedeva la perfetta fusione fra influenze rock, classiche, jazz e cori al livello dei Beach Boys e poteva vantare sulla maestria di solisti del calibro di Bill Bruford alla batteria, Cris Squire al basso, Rick Wakeman al piano e tastiere, oltre quell’autentica leggenda della chitarra rock che è Steve Howe.
Proprio Howe, nonostante i sessantadue anni, l’altra sera ha manifestato ancora una volta tutta la sua grandezza sulla elettrica.
Li ascoltammo per la prima volta nel 1971 quando “The Yes Album” era entrato in classifica negli USA e rimanemmo colpiti nel vedere un chitarrista rock esibirsi con una chitarra jazz (Gibson ES 175) e con uno stile così personale.
La leggendaria chitarra era con lui a Roma quando, suonando Yours Is No Disgrace, tratta appunto da “The Yes Album”, ci ha riportato a quei memorabili periodi.



È stato un susseguirsi di vecchi brani (il gruppo da tempo non produce più dischi di interesse): Roundabout, Heart of The Sunrise, Siberian Kathru, I’ve Seen All Good People oltre a brani tratti da “Drama” (quando nella formazione entrarono i Buggles) unitamente a Owner of A Lonely Heart, la loro più grande hit, che negli anni Ottanta li portò ai vertici delle classifiche mondiali con Trevor Rabin alla chitarra e Jon Anderson alla voce. Proprio il maestro di cerimonia di cui sopra, con un sottile gioco di parole, senza nominarlo, aveva fatto capire che Jon Anderson (membro fondatore) non era più della partita perchè la sua voce non ce la faceva più.

 

 

 

 

A dire il vero Anderson è stato male piuttosto seriamente, è tornato in tour anche in Italia ma non può, vista la complessità delle parti, reggere i ritmi infernali dei tour degli Yes, reduci da un lungo giro americano che li ha visti, in estate, dividere il palco con gli Asia.
Il sostituto scelto per la sua voce simile (precisiamo simile) oltre a dimenticarsi qualche testo ha preso, sugli acuti, tre stecche da paura, a dimostrazione che ognuno di noi è unico e Jon Anderson guarda caso, lo era, non così si puo dire di Benoit David.

 

 

 

Il gruppo completato da Oliver Wakeman alle tastiere (figlio di Rick), da uno spento Alan White alla batteria ha potuto contare oltre a Howe sul sempre valido Cris Squire, neo papà e prossimo a condividere un nuovo progetto musicale con Steve Hackett (ex chitarrista dei Genesis).
Discreta la produzione, buono l’ascolto, scenografia essenziale, nulla a che fare con i bellissimi palchi dei bei tempi che furono. In definitiva ancora raccomandabili (se ascoltati lontano da Roma).