Mentre a Seattle, nei primi anni Novanta, esplodeva l’ultima rivoluzione della storia del rock, quella del grunge con tutto il nichilismo della “Generazione X” capitanata dai loro portavoce, i Nirvana di Kurt Cobain, a Chicago succedeva altro.
Se quello di Seattle sarebbe stato definito “alternative rock”, quello che una misconosciuta band che si chiamava Uncle Tupelo andava inventando sulle rive dei Grandi Laghi passava alla storia come “alternative country”.



Certo, il successo commerciale i Tupelo non lo avrebbero visto neanche con la lente di ingrandimento, a differenza di Nirvana e Pearl Jam, ma la loro rivoluzione silenziosa avrebbe ugualmente dato vita a un movimento musicale e a un nuovo modo di intendere la musica rock.
I leader degli Uncle Tupelo si chiamavano Jeff Tweedy e Jay Farrar e mettevano insieme sentimento punk e radici folk, declamando gli antichi inni della Carter Family degli anni Trenta: “No depression” si chiamava uno dei loro dischi e No Depression era proprio un pezzo della Carter Family, i fondatori della moderna musica country.



Gli Uncle Tupelo si sciolsero dopo poco e i due leader avrebbero dato vita ad avventure separate: i Son Volt per Farrar, i Wilco per Tweedy. E proprio i Wilco sarebbero diventati in anni recenti il più sorprendente, innovativo, geniale gruppo rock americano. Con dischi come “Yankee Hotel Foxtrot” e “A Ghost Is Born” avrebbero messo insieme canzone d’autore, sperimentalismo elettronico, rumorismo cosmico e cavalcate chitarristiche impazzite. Tutto sul filo di una malinconia esistenziale, frutto del genio di Jeff Tweedy, una delle menti più brillanti della scena rock degli ultimi vent’anni.



I Wilco hanno suonato a Milano l’altra sera, nell’elegante cornice del Conservatorio: dopo concerti sperduti in provincia o piccoli club, finalmente l’Italia ha dato loro lo spazio adeguato, con una serata sold out da mesi. Perché è dal vivo che i Wilco danno il meglio. Con una formazione di livello tecnico formidabile (specie il batterista Glenn Kotche, autentica forza della natura, e l’incredibile chitarrista Nels Cline, capace di passare dal jazz al rumorismo più scatenato) hanno incantato per quasi tre ore.

 

 

 

 

Canzoni che partono da tranquille melodie folk per aprirsi a torrenziali jam dove elettronica, feedback di chitarra, caos cacofonico spaccano l’andamento per poi rinchiudersi tranquillamente là dove la canzone riprende il sopravvento. Brani come Ashes of American Flag, la delicata Jesus Etc, la schizofrenica A Shot in the Arm, la straziante Misunderstood (dove cantante e band si prodigano in una escalation di infiniti stop and go) rappresentano al meglio l’ultima frontiera del rock americano.

E non è un caso che in scaletta facciano capolino un brano come California Stars (liriche inedite del padre del folk d’autore americano, Woody Guthrie, musicate dai Wilco) e la conclusiva I Am a Wheel, puro punk d’assalto. Come dire: ecco chi siamo.