Da anni ormai anche l’Italia è diventata, sotto Natale, terra di Gospel. Ovunque si vedono cartelloni di spettacoli di formazioni più o meno famose provenienti dagli States che interpretano classici della religiosità nordamericana, titoli ottimi per tutti i gusti. “Fa tanto Natale”, si dice, al punto che ormai la leggendaria Oh happy day (che con il natività non c’entra assolutamente niente, essendo un canto pasquale: Oh giorno felice, il giorno in cui Gesù laverà tutti i peccati”) pare più adatta di Adeste fidelis per per “creare quell’atmosfera”, con la neve e i regali sotto l’albero.



Com’è successo che il gospel è diventato “di moda” anche nella terra di Tu scendi dalle stelle? Ad aprire la fila era stato una ventina d’anni fa Umbria jazz, che nel suo cartellone invernale aveva introdotto alcune formazioni vocali statunitensi, seguito negli anni da tante altre manifestazioni più o meno importanti. La cosa ha attecchito, permettendoci di sentire cose egregie e di scoprire, soprattutto, che il gospel non è più quello di Mahalia Jackson o del Golden Gate Quartet.



Sdoganato in vari periodi per gli ascoltatori di mezzo mondo (recentemente con il successo dei Blind boys of Alabama), il Gospel negli Usa è un genere di dimensioni importanti, con classifiche che differenziano solisti o formazioni di “contemporary gospel” da quelle più tradizionali, definiti prosaicamente “classic gospel” o “afro-american gospel”.

Certo, per il nostro gusto legato a certe canzoni e certi suoni, tutto ciò che è classico ci pare più autentico, ma per i neri d’America il vero mercato è quello dei gospel influenzati dal jazz, dal pop, dalla soul music (altro discorso riguarda il country-gospel, prettamente bianco e radicato negli stati del Sud, mentre il gospel ha patria nelle città urbane del nord, Chicago e Detroit in testa).



In cerca di gospel con un fondo di autenticità, mi sono inoltrato nella campagna veneta, tra Padova e Venezia, in una sera poco “invernale” visto che da queste parti la neve ha lasciato il posto all’umidità e alla pioggia. Nel Palasport di Trebaseleghe (nome poco importante, ma secondo me interessante: ascoltare gospel in un paesotto padano mi ha fatto sentire come un vecchio proletario di colore in un piccolo centro urbano dell’Illinois o del Michigan….) andava in scena Nathan Brown and One Voice.

Si tratta di una formazione che sta spendendo il suo dicembre 2009 in giro per l’Italia e che può essere per molti (me compreso) una bella sorpresa. Un viaggetto che si è dimostrato tutt’altro che inutile: Nathan, leader della formazione, sassofonista oltre che cantante e ministro di una chiesa battista di Washington, è un musicista di valore assoluto, dalla lunga militanza jazzistica nella Duke Ellington Jazz Band e con alcuni dischi di spiritual e gospel alle spalle.

Serata ricca, dicevo: merito dei nove coristi e dei tre musicisti (basso, pianoforte, batteria) che assecondano il leader in tutto, ma merito della capacità di Brown di miscelare i vari periodi e stili del gospel per arrivare a costruire una serata ricca, calda, trascinante. Interessante il trattamento dei brani più tradizionali, presentati come “afro-american gospel”, proprio a sottolineare le differenze storico-etniche dei vari titoli. Le interpretazioni di Oh Happy day, Go down Moses, Down by the riverside e Go tell it on the mountains non lasciano dubbi sulle qualità della formazione complessiva, mentre Amazing grace è uno strepitoso strumentale con il sax di Brown a interpretare le parti soliste.

I vocalist (tre voci maschili e sei voci femminili) sono efficaci ed affiatatissimi e quando prendono in mano gli inni firmati direttamente da Nathan, fanno intendere che nelle soluzioni più jazzate e pop-oriented si incuneano a meraviglia, come in Tell the world, The prayer e He’s on my side.

Finale dei più attesi, ovvi, ma con gusto: Amen e When the saints go marchin’ in, con cinquecento persone che cantano, saltano, ballano, applaudono. Uscendo il reverendo Brown si fa trovare vicino al banchetto dei suoi cd, firma le locandine e benedice tutti, sorridendo, stringendo vigorosamente le mani di tutti, “God bless you, God bless you”, comunicando fiducia, forza, fisicità. I miei figli mi chiedono “Perché anche in Italia non ci sono preti così”? Rispondo: “In effetti ogni tanto ce ne sarebbe bisogno…”.