Notte di Sant’Ambrogio, il sipario si chiude sulla Prima del Teatro alla Scala di Milano, tra applausi scroscianti e fischi feroci, fiori e urla. La Prima della Carmen di Bizet diretta da Daniel Barenboim, con la regia di Emma Dante attesa al varco, non ha deluso. «Una serata importante, con i suoi eccessi e i suoi difetti», ci confida a caldo il critico musicale Lorenzo Arruga.
L’evento aveva saputo catalizzare l’attenzione di giornali, radio, televisioni se possibile anche più degli anni passati. Il motivo principale? il debutto di Anita Rachvelishvili, georgiana, 25 anni, nel ruolo di Carmen e la prima volta all’Opera della regista. Il racconto di ciò che ha detto il palcoscenico di Lorenzo Arruga.

Quali sono le sue impressioni a caldo su questa tanto attesa Prima?



Un grandissimo lavoro, concorde, sempre vivacissimo, poi il lancio di una debuttante che trionfa: una serata importante con i suoi eccessi e i suoi difetti, soprattutto sul piano registico. A un certo punto le idee sono venute meno, quando questo accade si infarcisce la scena di simboli, si mettono tanti preti, morti e funerali che non servono.
Nel complesso, una serata di grande impegno e successo per i protagonisti, salvo Adriana Damato (nel ruolo di Micaëla), bravissima cantante che però non era in serata, e la regia, che è stata pesantemente contestata.



Cosa non ha convinto di Emma Dante? L’ossessione anticlericale?

Si sa che gli ignoranti si sentono buoni quando parlano male dei preti e della Chiesa, questo avviene perché è comodo, non si rischia niente. Fa sorridere il fatto che il crocifisso sia considerato quasi una provocazione nei luoghi pubblici e alla Scala si possa mettere in scena un’ostentazione di questo tipo senza che si rischino proteste.
Gli elementi religiosi erano vissuti e mostrati come segno di oppressione, ma forse anche come fatto tragico, rituale, legato alla morte. Occorrerebbe un premessa…

Cioè?

Carmen è un’opera nuda, di scandalo diretto, immediato. I direttori di Teatro raccomandavano agli spettatori di tenere a casa mogli e figlie. Il rischio però è quello di enfatizzare quest’opera con delle forme di teatro che lo possono fagocitare. È il rischio di una regista che ha un teatro caratteristico, spettacolare, carnale, di una psicologia elementare, ma molto evidente.



Cosa le è piaciuto invece della regia?

 

 

Ha fatto recitare bene, ha curato il fisico dei personaggi che in questo modo sono apparsi veri, evitando facili stereotipi. Ci sono state alcuni intuizioni di rilievo all’interno di una scenografia sobria, attenta e funzionale, curata da un grande esperto creativo come Richard Peduzzi.
Le coreografie erano un po’ elementari, fra il musical e “La gatta Cenerentola”. Certo, un po’ di esperienza e sobrietà in più avrebbero evitato le delusioni del finale.

Lei che da anni segue l’Opera nei più grandi Teatri, ma che come pochi ha il polso degli umori del pubblico della Scala, come giudica le reazioni?

La Scala è tradizionalista, per riuscire a superare le reazioni bisogna fare uno spettacolo nel suo genere e inattaccabile. L’incoerenza ha causato le proteste, ma vedrà che nelle recite andrà bene.

Passando alla protagonista, come se l’è cavata Anita Rachvelishvili nel ruolo di Carmen?

È una cantante che ha una natura vocale psicologica estremamente forte, appena arrivata all’Accademia si è visto che svettava sulle altre. Certo che tenere così, come se facesse le prime da protagonista nei grandi teatri del mondo da una vita…
È stata una sorpresa e una conferma insieme. Conferma per le qualità e sorpresa per il livello raggiunto. Credibilissima, intensa, nonostante l’età.

È stato un rischio per la Scala?

Un rischio che, come si è visto di prova in prova, si è rivelato ben assestato, un rischio che valeva la pena di correre. Bello poi che arrivi dall’Accademia di canto. Ha avuto questa chance e ne ha approfittato in maniera colossale.

Un commento alla direzione di Daniel Barenboim?

Ha fatto un lavoro molto preciso e determinato: ha lavorato sull’orchestra con una certa spigolosità, certo non di eloquenza affettuosa. Ha tolto anche un po’è di fascino per mettere in rilievo la complessità della partitura. Sia nel canto che nell’orchestra il discorso delle armonie è stato di una trasparenza come ben poche volte si era sentito, la logica del fraseggio era sempre fondata su una razionalità che poi diventava forza sentimentale.
Ha fatto una Carmen non solo antifolcloristica e non solo internazionale. Una Carmen con una sua violenza disperata con una cifra molto caratteristica e personale.

Da ultimo: un cenno alla superba prova di Jonas Kaufmann. Placido Domingo lo ha definito “il miglior Don José in circolazione”. È d’accordo?

Sì, stupendo, recitazione, parola, intimità, sicurezza: una grandissima prova di un grandissimo tenore. Di Don Josè ce ne sono stati tanti bravi per vari motivi, certamente oggi Kaufmann non ha rivali.

(Carlo Melato)